I musei napoletani

di Alessandro Cocorullo

Sono circa cinquanta i musei della città di Napoli, sia pubblici che privati. Tuttavia solo una piccola parte di questi convoglia la quasi totalità dei visitatori: il Museo Archeologico Nazionale, la Galleria di Capodimonte, Castel Sant’Elmo, il Museo di San Martino, Palazzo Reale, Castelnuovo (Maschio Angioino), il Madre, la Cappella Sansevero. Si tratta di musei statali, salvo gli ultimi due che sono fondazioni.

La maggior parte dei musei cittadini, così come quelli nazionali, sono statali. Ciò vuol dire che sono gestiti direttamente dal ministero per i beni e le attività culturali e il turismo. L’attuale giurisprudenza in materia di beni culturali poggia sul decreto Urbani del 2004, che ha aggiunto ai compiti di conservazione e catalogazione – già presenti nella legge Bottai del 1939 – anche quelli di valorizzazione e fruizione.

Secondo Pierpaolo Forte[1], presidente della fondazione Donnaregina e già professore associato di diritto amministrativo presso l’Università del Sannio, i musei statali sono “uffici autonomi” delle soprintendenze. Una condizione piuttosto vaga che ha sempre reso incerta la reale autonomia dei musei dal sistema centrale. Dagli anni Sessanta a oggi numerosi provvedimenti hanno cercato di dare autonomia ai musei, senza tuttavia modificare in modo sostanziale il rapporto di dipendenza dal ministero. Anche la creazione di soprintendenze speciali – la prima delle quali è stata Pompei (1997), a cui sono seguite altre cinque, strutturate in poli museali che gestiscono i musei statali nelle principali città d’arte – non è riuscita a rendere i musei completamente autonomi. Lo stesso Forte sottolinea come i musei non abbiano autonomia in materia di programmazione economico-finanziaria, gestione del personale, acquisti di beni e servizi, uso attivo del patrimonio; non possono avere relazioni giuridiche con il territorio e più in generale con l’esterno; non hanno, spesso, un vero stato patrimoniale; hanno difficoltà a ricevere contributi, generare ricavi, e se ci riuscissero le risorse dovrebbero confluire nelle entrate del bilancio statale, per poi tornare nella disponibilità del museo, che in ogni caso non potrebbe utilizzarle discrezionalmente. A rendere farraginosa la macchina amministrativa è anche l’affollamento di cariche e istituzioni i cui ambiti di competenza non sono ben definiti: direttore del museo, direttore del polo museale, soprintendente, direzione regionale, direzione nazionale per i beni culturali.

I dati sui visitatori

Questo quadro è sostanzialmente valido per i musei statali napoletani. In cima c’è il Museo Archeologico Nazionale[2], il più grande museo archeologico d’Europa, che nel 2013 è stato il quindicesimo, tra musei e siti italiani, per numero di visitatori con 308 mila presenze, il primo di Napoli. Nel 2014 il museo ha toccato quota 350 mila visitatori, come nell’annata 2007, quando i visitatori furono 357 mila. Si tratta del quarto miglior risultato dal 1997 a oggi[3]. Anno d’oro per il museo fu il 2003, con 397 mila visitatori, seguito dal 2006 con 386 mila visite. Dal 2008 si registra un crollo dei visitatori, sia per l’inizio della crisi economica internazionale sia per l’emergenza rifiuti che si registra in città. Il picco minimo arriva nel 2010, con 288 mila visitatori. Da allora comincia la risalita fino al buon risultato del 2014.

La galleria di Capodimonte nel 2005 tocca il massimo risultato con 244 mila visite. Picco prima della crisi del 2008, che vede il minimo degli ingressi nel 2012, con poco meno di 98 mila visitatori. Il Palazzo Reale ha il suo anno d’oro nel 1998, con quasi 249 mila visitatori; segue poi un lento decadimento fino al minimo del 2008, con meno di 76 mila visite. Poi il museo ha una lenta ripresa, fino al buon risultato del 2014 (quasi 154 mila visitatori). In piena caduta il museo di Castelnuovo, alias Maschio Angioino, che dal 1997 ha visto diminuire progressivamente, salvo brevi parentesi di assestamento, i suoi visitatori: dai 165 mila del 1997 ai 64 mila del 2013[4]. Una perdita di circa il 60% delle visite. Un caso a parte sembra essere il Castel Sant’Elmo, che dopo alcune fasi alterne tra il 1997 e il 2005 (con estremi: 19 mila visitatori per il 1998; 124 mila per il 2003), conosce una lenta ma costante ripresa a partire dal 2006, resistendo al quinquennio terribile 2008-2012 e giungendo al 2014 con 136 mila tagliandi staccati. Il museo di San Martino, interno alla struttura di Castel Sant’Elmo, ha registrato ritmi più costanti ma con una tendenza negativa: dai 125 mila del 2003 ai 95 mila nel 2012, per poi partecipare alla lenta ripresa post-crisi registrando 119 mila ingressi nel 2014. Questi numeri, tuttavia, estrapolati perlopiù dalle statistiche di uffici del ministero quali il Sistan, non fanno differenza tra visitatori autonomi e scolaresche, che incidono in modo significativo sul numero dei visitatori.

Discorso a parte va fatto per le due fondazioni: Madre e Cappella Sansevero. La prima si costituisce nel 2004 per impulso della Regione Campania, con governatore Bassolino. Il museo registra subito una buona crescita, resistendo alla crisi e approdando al 2010 con 76 mila visitatori, massimo risultato della sua breve storia. Una congerie di cause (cambio della guardia politica e dell’organico amministrativo), fanno precipitare le visite ad appena 23 mila per il 2011. La nuova gestione, ordinando le casse del museo, chiude il 2014 con quasi 43 mila visitatori. La Cappella Sansevero è di proprietà della famiglia omonima e ha aperto al pubblico come museo nel 2008. Nei pochi anni di attività ha registrato una vertiginosa impennata di visitatori, passando dai 152 mila del 2009 ai 247 mila del 2013; dal 2009 è il secondo museo più visitato di Napoli, dopo l’Archeologico[5].

Gli anni di Bassolino: Città della Scienza, Madre, Pan

L’età d’oro dei musei napoletani coincide con gli anni di Bassolino, prima sindaco di Napoli (1993-2000) e poi governatore della Campania (2000-2010), periodo in cui avvengono i principali interventi nei musei cittadini.

Tra il 2001 e il 2003, l’amministrazione regionale dà vita alla rassegna “Annali delle Arti”, che coinvolge i principali musei, siti di interesse storico-artistico e gallerie d’arte della regione. In Campania approdano artisti come Clemente, Koons, Kapoor, Hirst, Pascali, Serra. La direzione artistica dell’evento è affidata a due uomini chiave dell’entourage di Bassolino: Achille Bonito Oliva e Eduardo Cicelyn. I principali siti cittadini di questo “triennio dell’arte” sono Capodimonte, Castel Sant’Elmo e l’Archeologico, che proprio grazie a Jeff Koons registra il record di visitatori nel 2003.

Negli anni di Bassolino sindaco (1996) nasce anche la Città della Scienza a Bagnoli, una struttura a metà tra il museo e il laboratorio didattico di fisica, chimica, scienze, con possibilità di fare esperimenti e interagire con le macchine messe a disposizione dal museo. Con una spesa di 105 miliardi di lire, di cui il 90% pubblici, la fondazione Idis di Vittorio Silvestrini ottiene di gestire il museo scientifico per novant’anni. È un’eccezione al piano regolatore e al piano attuativo urbanistico, che prevedono l’abbattimento di qualsiasi edificio sulla linea di costa. Da governatore Bassolino trasforma Città della Scienza in una società in house della Regione, dalla quale arrivano fondi per circa 3 milioni di euro all’anno. Con la crisi del 2008, che segna anche il declino di Bassolino, i fondi si diradano fino a sparire, lasciando i 160 dipendenti senza stipendio per un anno. La parabola della struttura ha il suo punto più basso il 4 marzo 2013, quando un incendio doloso devasta quattro dei sei capannoni, in cui vanno distrutti buona parte dei beni contenuti nonché il server del sito del museo. Nel novembre 2013, tuttavia, il museo riapre al pubblico le strutture rimanenti.

Il Madre nasce nel 2005 in seno alla fondazione Donnaregina. Presidente è Bassolino stesso, che chiama Bonito Oliva come consigliere e Cicelyn come direttore. Tra i consiglieri, nomi come Rosenthal, Todolì e Fuchs, che danno al museo fin da subito una dimensione internazionale. Nonostante la partenza in quarta, il Madre accusa la crisi internazionale e regionale: appena 90 mila euro di introiti annui, che non coprono neanche un terzo delle spese di gestione. Queste sono le accuse della nuova giunta regionale Caldoro, eletta nel 2010. L’ente pubblico, in gravi difficoltà economiche, non versa più contributi al museo che, a sua volta, tiene i sei dipendenti senza stipendio da agosto 2009 a maggio 2010. Le accuse rivolte a Cicelyn sono, di riflesso, accuse rivolte al “sistema Bassolino”: megastrutture che fagocitano soldi pubblici, incapaci di produrre un fatturato per il proprio sostentamento. Nonostante l’appoggio di artisti come Clemente e Paladino, Cicelyn viene destituito e il Madre subisce una profonda ristrutturazione, con cambio d’organico nel Cda e con il duo Pierpaolo Forte (presidenza) e Andrea Viliani (direzione) alla guida. Le novità della giunta Caldoro sono consistenti: il presidente non è più il governatore ma è scelto in base a competenze specifiche nel settore; il numero di consiglieri viene ampliato da tre a cinque; il direttore è assunto tramite concorso, con mandato quinquennale. Soprattutto, l’ente regionale diminuisce sensibilmente i fondi destinati al museo, in sintonia con la politica nazionale di austerità, lasciando più spazio ai privati e alle gallerie. Villani eredita dalla precedente gestione il respiro internazionale delle grandi mostre, dedicando più spazio al ruolo di Napoli nell’arte contemporanea. Tra i punti forti del museo, comune a entrambe le gestioni, è la presenza di un personale giovane, preparato e cordiale: caratteristiche inedite al confronto con gli altri musei cittadini.

Terza filiazione dell’epoca bassoliniana è il Pan, Palazzo delle Arti di Napoli, inaugurato nel marzo 2005, pochi mesi prima del Madre. È una fondazione voluta e gestita dal comune, costata 20 milioni: 12 da palazzo San Giacomo e 8 dalla Regione. La struttura è un palazzo del XVI secolo, appartenuto alla famiglia Carafa, che il comune acquista nel 1976 e ristruttura per intero, adibendo gli oltre 6 mila metri quadrati a spazio espositivo, biblioteca, mediateca e centro di ricerca per l’arte contemporanea. Consulente del museo è il franco-ungherese Lorand Hegyi, il quale precisa che non ci sarà subito una collezione permanente poiché non esiste un budget stabilito, ma si farà di tutto per ottenerne uno. Nel primo anno e mezzo le mostre sono solo tre, con una media di dieci visitatori al giorno, e costi che arrivano a 5 milioni di euro l’anno. L’indebolirsi di Bassolino segna il tracollo del museo. A dieci anni dalla sua fondazione, il Pan non ha ancora una collezione; il sito internet, redatto in inglese, ha una dozzina di aggiornamenti fermi al 2012. Il Pan non è diventato né un museo, né un centro di ricerca, ma un contenitore in cui vengono ospitate saltuariamente mostre d’arte (come quella di Wahrol nel 2014) e mostre di fumetti.

Queste tre istituzioni di diritto privato esemplificano bene alcune problematiche del rapporto tra le istituzioni culturali e la politica locale, poiché quest’ultima vi ha un controllo diretto, meno burocratizzato e parcellizzato rispetto alla gestione interamente pubblica di altre istituzioni.

La dipendenza di queste realtà museali dalla politica campana è evidente con l’ascesa di Bassolino, che tra il 1997 e il 2005 dota la città di strutture ed eventi di rilievo internazionale, ma la gestione accentratrice congestiona l’esperienza culturale. Con l’arrivo di Caldoro, in campo museale si registra il solo intervento sul Madre: evitato il fallimento, il museo ha dato segnali di ripresa tali da meritare il premio di miglior museo italiano del 2013 e nel 2015[6]. L’altra iniziativa della giunta Caldoro è l’apertura del Mamt nel 2013, il Museo mediterraneo dell’arte, della musica e delle tradizioni. Costruito con fondi europei, il museo ha ottenuto uno scarso successo di pubblico, che avrebbe dovuto affluire in massa anche per il Forum delle Culture, che non è stato il “motore economico” che tutti auspicavano. Qualcuno ha giustamente sottolineato come il museo sia un’accozzaglia di oggetti, privo di una comunicazione convincente e di un’identità specifica[7]. Tuttavia Caldoro ha così accontentato le aspirazioni dell’architetto Michele Capasso, fondatore della fondazione Mediterraneo e figlio di Raffaele, sindaco di San Sebastiano al Vesuvio per 37 anni. Ma questa mossa non ha giovato né alla sua posizione politica, né all’offerta museale della città, che ha ignorato l’ennesimo contenitore culturale.

I nodi da sciogliere

Le problematiche dei musei statali della città sono comuni a tutti i musei nazionali. A parte la limitata autonomia, a ostacolarne l’efficienza sono arrivati i tagli alla spesa pubblica a partire dal 2008. Dall’inizio della crisi l’Italia ha ridotto la spesa per la cultura all’1,1% del prodotto interno lordo, la più bassa d’Europa. Più bassa persino della Grecia, ferma all’1,2%.

La diminuzione degli investimenti ha avuto una ricaduta sulle assunzioni nei musei e nelle soprintendenze, con un’immissione di personale sempre molto inferiore al necessario. È il caso dei custodi, una delle questioni irrisolte dei beni culturali italiani e che mina fortemente la fruibilità degli stessi. Nel 2008 sono stati reclutati per concorso 397 nuovi assistenti all’accoglienza, portando il numero totale dei custodi impiegati nei beni culturali a 8.917. Una cifra inferiore a quanti ne servirebbero – almeno 12 mila – tenuto presente che l’ultima conta dei custodi risale al 1999, e negli ultimi quindici anni le strutture museali e i siti fruibili sono aumentati. Dall’altro lato, il numero di custodi in uscita è in crescita: nel solo 2010 ne sono andati in pensione 800. Tra il concorso del 2008 e i precedenti sono passati trent’anni: la media d’età è ferma a 59 anni, e in Campania tocca il picco dei 68 anni agli scavi di Pompei. La nuova immissione di personale ha perciò generato uno scontro generazionale: i nuovi custodi hanno la laurea o il dottorato – e dovrebbero occupare ben altre posizioni – a fronte della vecchia guardia che, nel migliore dei casi, ha il diploma. Si profilano, perciò, due ordini di problemi: la carenza di personale e la scarsa preparazione di quello operativo. La penuria di custodi rende inaccessibili musei interi o loro parti, e rende molto difficili le aperture straordinarie, caratterizzate da estenuanti confronti con i sindacati che chiedono compensi ulteriori, spesso molto onerosi (come gli 80 euro all’ora per le aperture notturne di Pompei[8]). Il secondo problema rende invece i musei poco fruibili. La quasi totalità dei custodi non conosce una lingua straniera. Ne consegue l’incapacità di dare informazioni. Il nuovo profilo del custode prevede, infatti, oltre alla vigilanza anche l’accompagnamento e l’accoglienza del visitatore.

La mancanza di personale si rileva anche su altre figure professionali, quali curatori, personale amministrativo e di gestione manageriale, addetti alla comunicazione. I musei pubblici mancano, nella grande maggioranza, di esperti nel campo della raccolta fondi, nel marketing e nella comunicazione: ambiti che, se ben utilizzati, possono apportare introiti al museo. Si è pensato di sopperire alla mancanza di queste figure introducendo manager d’azienda nelle file ministeriali, con risultati disastrosi per i beni culturali.

Terza problematica è l’affollamento di cariche e istituzioni che gestiscono il patrimonio culturale. Il ministero e le direzioni generali sono l’organo centrale, mentre le soprintendenze sono quello periferico. A queste si affiancano i direttori dei musei e dei poli museali, nonché le direzioni regionali, trasformate dal ministro Franceschini in segretariati regionali. Un numero cospicuo di istituzioni i cui margini d’azione non sono ben definiti e attraverso le quali la politica ha spesso fatto sentire la sua influenza. Tali limiti rendono i musei restii a ogni forma di evoluzione, rimanendo perlopiù sotto la gestione dei soprintendenti, il cui compito è di tipo tecnico più che di valorizzazione del patrimonio.

Il Museo Archeologico di Napoli soffre di tutte le criticità elencate. All’interno ospita una delle più importanti collezioni archeologiche del mondo, ma la carenza di personale di custodia tiene chiuse alcune sale del museo e, nei periodi festivi, la chiusura arriva fino al 70% delle sale. A questo si aggiunge la chiusura permanente della sala di antichità egizie, in restauro dal 2011, la sala di epigrafia e di Magna Grecia, di cui non si conosce la data di riapertura. Oltre alla mancanza di personale, il museo soffre della mancanza di spazi per esporre al meglio la collezione: nei sotterranei vi è una mole di reperti tre volte superiore a quella esposta. Il museo non ha un proprio sito internet e sui social network è pressoché assente. Mancano rassegne ed eventi di spessore, le attività per i bambini sono saltuarie, le mostre d’arte contemporanea coinvolgono solo artisti locali, il poco pubblicizzato cineforum porta qualche decina di persone in sala. Mancano un bar e un ristorante promessi da oltre un decennio. Questi limiti li ritroviamo negli altri principali musei statali cittadini. A Palazzo Reale, per esempio, è stato assunto un solo custode nel 2013, ma il museo dovrà far fronte alla perdita di una quindicina di lavoratori nei prossimi due anni, causa pensionamento. L’età media è molto alta, con alcuni addetti che hanno superato i settant’anni.

Uno sguardo al futuro

La recente riforma della pubblica amministrazione del governo Renzi, approvata nell’agosto 2015, separa la funzione di tutela da quella di valorizzazione, prima demandate a un unico organo, la soprintendenza. Salvo una ventina di “super musei”, gli altri musei italiani verranno accorpati a poli regionali, mescolando gli artistici agli archeologici, i quali verranno staccati dalle soprintendenze. La riforma ancora non dà piena autonomia ai direttori, ma toglie ai soprintendenti la facilità con cui davano o meno autorizzazioni. Inoltre, la sparizione definitiva delle direzioni regionali sarebbe un notevole passo avanti per alleggerire la burocrazia.

Per quanto riguarda i musei, una ventina di essi avranno maggiore autonomia, distaccandosi dalle soprintendenze; ciò consentirebbe loro di trasformarsi finalmente in centri di ricerca come i loro omologhi stranieri. I musei saranno divisi in due gruppi, con direttori rispettivamente di I e II fascia. Per quanto riguarda i musei napoletani, Capodimonte sarà in prima fascia, mentre l’Archeologico in seconda: una scelta non felice quest’ultima, perché in questo modo si troverebbe staccato dai siti archeologici vesuviani, di cui conserva i reperti. I restanti musei confluiranno in calderoni misti, sia per tema che per importanza della collezione. A guidare questa suddivisione è un principio di tipo “bigliettaio”, ovvero vengono considerati super musei tutti quelli che godono di grandi afflussi di turisti, isolando così ulteriormente gli esclusi da questa lista, tra cui vi sono, per esempio, il museo di Palazzo Reale e di Castel Sant’Elmo.

Se da un lato la riforma accontenta su alcuni punti i sostenitori dell’autonomia museale, dall’altro la nomina dei direttori non ha risparmiato qualche polemica. All’Archeologico si insedia Paolo Giulierini, etruscologo toscano, sebbene il museo non abbia reperti di cultura etrusca. A Capodimonte arriva Sylvain Bellenger, francese con una lunga esperienza internazionale in gestione museale. Le prerogative dei nuovi direttori sono la giovane età, la capacità di gestione museale e una certa esperienza internazionale. Meno richieste sembrano essere le competenze specifiche, laddove il direttore non è esperto del patrimonio che gestisce. Ma il tratto che accomuna tutti e venti i direttori è che nessuno viene dalle soprintendenze, l’organo che lo stato ha creato negli anni Settanta per gestire il suo immenso patrimonio. Una scelta che ha indispettito le stesse, e che non ha precedenti nella storia del paese. Il presidente Renzi nell’aprile 2014 definì “ottocentesca” la struttura del ministero dei beni culturali, e “soprintendente” come una “delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia[9]”. Con questa mossa, atta più a dare un’immagine di riforma che foriera di un reale cambiamento, lo stato sembra cancellare in un solo colpo una struttura che lui stesso ha creato e sorretto per decenni, e che d’improvviso si ritrova a essere obsoleta. Le stesse soprintendenze sembrano, dal canto loro, pagare le loro pecche in materia di valorizzazione, a volte creando più problemi che soluzioni. Ciò che resta della riforma, da sottolineare, è che le soprintendenze non sono state nemmeno interpellate.

Nonostante i rischi maggiori per le ingerenze politiche e di interessi privati, una soluzione per i principali musei napoletani potrebbe essere la metamorfosi in fondazioni. Molte città stanno utilizzando tale formula per gestire il patrimonio museale, tra queste Torino è quella che ha maggiormente investito in fondazioni, con buoni risultati. Con l’istituto della fondazione, un museo ha maggiore libertà d’azione e, soprattutto, può trattenere per sé i ricavi, senza riversarli al ministero come fanno tutti i musei e i siti statali. Ciò non toglie che le stesse fondazioni necessitano di fondi pubblici, giacché nessun museo può vivere dei propri ricavi: il Louvre, per esempio, riesce a coprire solo metà delle sue uscite, ed è un ottimo esempio di gestione museale. Solo i due principali musei americani (il Metropolitan Museum e il Museum of Modern Art) riescono a generare una piccola ricchezza, in cambio tuttavia di una politica spregiudicata, che della diffusione culturale ha sempre meno, privilegiando mostre e artisti in base alle vendite sul mercato, come un ex dipendente del Guggenheim di New York ha raccontato in un libro del 2009[10]. Il sistema misto, perciò, sembra il migliore: fondazioni di diritto privato ma create dal pubblico, con una costituzione chiara e concorsi per il personale.

Proprio la carenza di fondi e la necessità di raccoglierne, che spesso caratterizza le fondazioni, può tuttavia favorire il fenomeno delle mostre preconfezionate, di norma prodotte all’estero, acquistate dai “mostrifici” italiani che le rivendono a musei e gallerie, facendo circolare solo i nomi di grido del panorama artistico. Spesso il nome serve solo per attirare i turisti, che si trovano dinanzi meno di dieci opere dell’artista, circondate da autori minori, pannelli, filmati, effetti 3D. Tuttavia, in assenza di una seria politica di rilancio dei beni culturali, queste restano soluzioni tampone. Attualmente lo stato sembra interessato solo ai grandi attrattori turistici, come Pompei, lasciando ogni altra espressione storica o artistica campana al suo declino. Va da sé che la situazione di questi musei resterà immutata finché non ci sarà il personale sufficiente per tenerli aperti e finché mancheranno i fondi per pagare le bollette. Un problema procrastinato, ma pronto a diventare nuovo fecondo terreno di campagne politiche.

[1] Forte P., “I musei statali in Italia: prove di autonomia”, su Aedon, n. 1, 2011.

[2] I dati che seguono sono tratti da: statistica.beniculturali.it, comune.napoli.it, ilgiornaledellarte.com, flapane.com.

[3] Il Sistan rileva i dati di musei, siti e parchi statali italiani a partire dal 1997.

[4] Manca il dato del 2014.

[5] Il museo della Cappella Sansevero ha vinto il Travellers Choice Attractions 2013, premio della piattaforma TripAdvisor in base alle segnalazioni degli utenti.

[6] “Tutto il meglio del 2013. Personaggi, strutture, eventi, notizie dall’artworld”, in artribune.com, 06/01/14; “Tutto il meglio del 2015 nel mondo dell’arte. Personaggi, artisti, curatori, musei, gallerie, politici: il best of secondo la redazione di Artribune e un gruppo di opinion maker”, in artribune.com, 01/01/16.

[7] “Cicelyn: che scandalo quei 2,5 milioni al Mamt, museo fantasma”, in Corriere del Mezzogiorno, 29/06/15.

[8] “Visite notturne a Pompei, gli incassi non ripagano i costi per il personale”, in Il Sole 24 Ore, 03/09/2013.

[9] “Cultura, ecco perché affonda la nostra ‘grande bellezza’”, in espresso.repubblica.it, 14/04/2014.

 

[10] Werner P., Museo Spa. La globalizzazione della cultura, Johan e Levi, Monza, 2009.