Il boss delle cerimonie. Sulla Napoli dell’eccesso

di Stefania Ferraro

Il boss delle cerimonie è un reality televisivo in onda su Real Time. La prima edizione del programma (6 puntate) è andata in onda a gennaio 2014. Il format prevede la rappresentazione di banchetti nunziali, ma anche comunioni, feste di diciotto anni e varie ricorrenze familiari. La location è l’albergo La Sonrisa, a Sant’Antonio Abate (in provincia di Napoli), gestito da oltre vent’anni da Antonio Tobia Polese (don Antonio, il boss). Non si tratta di un semplice albergo, ma di una sorta di castello nella periferia vesuviana, immerso in 40 mila ettari di giardini e palme, con la cascata per gli sposi, gazebo ovunque, piscine, arredi barocchi, camere da letto stile impero e persino l’eliporto, con possibilità di noleggiare un elicottero. Tutta la famiglia di don Antonio lavora con lui e con un esercito di cuochi, pasticceri, camerieri, capitanati dal fedele maître Ferdinando. Le cerimonie sono “esagerate”, nel numero e nella tipologia di ospiti, nei colori e nella musica, nella quantità di cibo e nella durata. Il successo della trasmissione è tale che Il boss delle cerimonie è diventata la prima serie prodotta da Discovery Italia a essere trasmessa in lingua originale e sottotitolata in prima serata su TLC UK (canale del gruppo Discovery), cambiando il titolo in My Crazy Italian Wedding, ma conservando la sigla del programma: Nu’ matrimonio napulitano, canzone cantata nel 2008 dal neomelodico Daniele Bianco.

Solo un reality?

Il boss delle cerimonie, nel suo essere un reality, non presenta alcuna possibilità di analisi originale: come ogni reality nasconde mostrando, risponde a principi economici ed è costruito conformemente alle categorie percettive del recettore[1]. Anche in merito agli atteggiamenti e all’abbigliamento dei protagonisti c’è poco di nuovo da dire; due elementi concorrono alla loro definizione mediatica: uno si riferisce alla scrittura del copione, alla sceneggiatura e alla scenografia; l’altro si riferisce alla presenza dell’obiettivo della telecamera[2].

Traendo spunto da una corposa produzione letteraria e scientifica, in questo format tv la narrazione del parvenu napoletano (o della plebe arricchita, che dir si voglia) insiste sugli atti corporei del bere, del mangiare e dell’attività sessuale, sul ricorso al linguaggio popolare, agli stilemi della piazza e all’esagerazione iperbolica. Tuttavia, al di là del contesto napoletano, anche in queste rappresentazioni esagerate non vi è alcuna novità descrittiva: già molti secoli prima Rabelais, nel narrare di Gargantua e Pantagruele[3], infieriva contro i rappresentanti della corruzione del tempo, i funzionari della giustizia che rendono oscuri i processi più semplici, i dottori della Sorbona, incoerenti e pedanti, i preti ignoranti e superstiziosi, descrivendoli come soggetti preoccupati solo del lucro e dei banchetti; con i medesimi tratti distintivi Veblen descriveva gli eccessi della nascente borghesia industriale[4]; egualmente erano descritti sia il kitsch statunitense attribuito alla volgarità dei turisti americani in giro per l’Europa nella seconda metà dell’Ottocento, pronti all’acquisto di ogni paccottiglia[5], sia (molti anni dopo) l’improduttività borghese rappresentata in Le charme discret de la bourgeoisie, un film del 1972 diretto da Luis Buñuel.

In estrema sintesi, i temi ricorrenti in Il boss delle cerimonie rispondono a due precisi frame narrativi: il primo è quello delle più classiche forme di narrazione di Napoli e del meridione; il secondo è quello che storicamente utilizza le tecniche narrative degli stili di vita in “eccesso”. Pertanto, nel reality in questione c’è la ragazza incinta che deve sposarsi di fretta, ma con la cura maniacale di ogni dettaglio; il matriarcato che impera nella gestione degli eventi familiari connessi ai festeggiamenti; l’elevato numero di invitati, l’abbondanza di cibo, il rispetto di ogni rituale (dal volo delle colombe al taglio del nastro all’arrivo degli sposi); lo sfarzo degli abiti, i cantanti neomelodici e i colori accesi delle decorazioni di sala. Tutto è confezionato in modo vistoso e costoso, affinché l’evento festeggiato segni un patto indissolubile tra i partecipanti. In tutto ciò c’è poco di nuovo rispetto al “potere” creativo espresso dalla Hollywood che detta le mode[6].

Naturalmente, il neomelodico, la ragazza incinta e il dialetto napoletano, con qualche frase in italiano sgrammaticato, segnano immediatamente la distinzione, poiché – come spiegava Simmel a proposito delle logiche della moda[7] – non appena le classi inferiori cominciano ad appropriarsi dello “stile” di moda “superando i confini imposti dalle classi superiori e spezzando l’unità della loro reciproca appartenenza così simbolizzata, le classi superiori si volgono da questa moda a un’altra, con la quale si differenziano nuovamente dalle grandi masse e il gioco può ricominciare[8]”.

Inoltre, i “giganti del kitsch”, messi in scena quali parvenu napoletani in format come Il boss delle cerimonie, testimoniano che il mascherarsi (con abiti esagerati o assumendo per un giorno le sembianze dei personaggi dello star system di Hollywood) è un atto che ancora esprime il bisogno di celarsi temporaneamente in un’altra identità. Per ogni singolo protagonista della mise en scène si tratta di miscelare anomalia, stranezza e diversità al fine di rendere “la sua individualità eccessivamente individuale, una voce fuori dal coro[9]”. Del resto, la distinzione tra lo sfarzo del consumo borghese e quello messo in scena nel reality sta già nella scelta del format, che risponde alle logiche dello zoo umano[10], cioè di una rappresentazione che non parla tanto dei fenomeni che espone quanto degli spettatori che li richiedono e seda le loro paure di contaminazione.

Oltre il reality

La vera forza del format in questione è, in realtà, la capacità di produrre discorsi, quelli del sapere esperto (opinion leader, giornalisti, politici) e dell’uomo qualunque, che svolgono un lavoro di pedagogia di massa in direzione nazionalpopolare, come – per esempio – la richiesta di sospensione del programma, che balza su tutti i giornali in diversi momenti, arrivando persino a un’interrogazione parlamentare dei deputati Migliore e Scotto di Sel[11]. Per i perbenisti è comodo narrare i reality come falsificazione della realtà, perché ciò consente loro di prendere le distanze dal volgare e dal popolare che tali format mettono in scena. La verità, però, è che i reality rappresentano la società dello spettacolo[12], un epifenomeno della modernità tardo-liberale, che – attraverso gli esercizi discorsivi dei perbenisti (e degli intellettuali) – smorza il sapere critico e attiva il populismo, parlando, per esempio, dei piaceri sessuali di Berlusconi, affinché non si eserciti un pensiero politico[13].

È questo il motivo per cui i media in genere e i reality in particolare agiscono in termini di “tecnologia dell’intimità[14]”. Attraverso la messa in scena dell’intimità delle relazioni, delle feste in famiglia, del vivere quotidiano si articolano messaggi nazionalpopolari nei quali il kitsch è indispensabile, poiché “nel regno del kitsch impera la dittatura del cuore. I sentimenti suscitati dal kitsch devono essere tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone[15]”.

Non di meno, la rappresentazione dello sfarzo hollywoodiano in chiave kitsch assolve alla “doppia funzione di comprendere in sé una cerchia e nello stesso tempo di separarla dalle altre[16]”. Pertanto, rappresentando il parvenu nel reality, si tenta di dominarlo, di addomesticarlo, di naturalizzarlo. Inevitabilmente, i singoli si prestano a tali rappresentazioni di sé, poiché affascinati da una celebrità che hanno sempre subito, sin dal nascere della moda, attraverso “giochi di verità” costruiti grazie all’interazione di potere, sapere e desiderio; essi interiorizzano una norma che li determina dall’esterno[17].

È così che il reality produce una parossistica rappresentazione dell’arretratezza del parvenu napoletano, e genera ordine discorsivo. Le diversità, le inferiorità e gli eccessi della napoletanità popolare riattivano e alimentano la memoria storica sui temi della colpevole arretratezza del sud Italia, inespugnabile in quanto geneticamente iscritta nelle popolazioni meridionali[18].

La narrazione del kitsch napoletano è facilitata dalla storica persistenza di due anime nella stessa città: la borghesia, evoluta, ricca, colta, rispettosa delle regole e del vivere civile; la plebe, composta da un sottoproletariato cinico, incivile, irrispettoso e soprattutto corruttibile. Nelle narrazioni ufficiali, Napoli è soprattutto la città plebea, quella dei lazzari dediti all’illegalità. Su questi elementi discorsivi si è edificato il secolare processo di etnicizzazione del popolo napoletano[19]. Tuttavia, la doppia anima della città è anche un elemento rassicurante, in quanto consente di attribuire al numeroso sottoproletariato la colpa di tutti i mali di Napoli.

Tanto è forte la capacità giustificatoria di tale scissione della città in due anime che, quando una porzione di plebe tenta la scalata sociale e ci riesce grazie all’accrescimento del capitale economico, essa viene subito inquadrata, nell’ordine discorsivo, come parte di un fenomeno marginale: la capacità plebea di arricchirsi in forza della sua corruttibilità. Il dispositivo che scinde Napoli in plebe e borghesia, in quanto funzionale alle logiche di governo del territorio e delle popolazioni, continua ad agire in termini di ridefinizione del plebeo arricchito che preserva i tratti del cafone pre-moderno, quello delle scene mediatiche che ritroviamo nel boss delle cerimonie.

L’accrescimento del capitale economico da parte di una rappresentanza plebea consente a questa di effettuare un investimento sempre crescente del tempo dedicato al consumo e all’acquisizione della cultura presupposta dall’adeguamento dei consumi, andando a occupare lo spazio sociale propriamente borghese. Ne consegue che, dietro la denuncia di un’impropria condivisione di valori (dalle griffe alle labbra-canotto)[20], si cela in realtà il timore borghese di un’occupazione degli spazi di relazione e di potere; tale occupazione dei luoghi dell’élite può essere delegittimata anche con la criminalizzazione, la messa in ridicolo e la naturalizzazione dei comportamenti della plebe arricchita, rappresentata in reality come Il boss delle cerimonie attraverso la stereotipizzazione dei suoi comportamenti in eccesso.

[1] Bourdieu P., Sulla televisione, Feltrinelli, Milano, 1997 (ed. or. 1996).

[2] “Non appena mi sento guardato dall’obiettivo tutto cambia: mi metto in atteggiamento di posa, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in un’immagine”, in Barthes R., La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2003 (ed. or. 1980).

[3] Rabelais F., Gargantua e Pantagruele, Sansoni, Firenze, 1980 (ed. or. 1564).

[4] Veblen T., La teoria della classe agiata, Edizioni di Comunità, Torino, 1999 (ed. or. 1899).

[5] La volgare paccottiglia era definita sketch, da cui etimologicamente deriva kitsch. Sull’argomento si veda Eco U., Storia della bruttezza, Bompiani, Milano, 2007.

[6] Fumagalli A., Creatività al potere. Da Hollywood alla Pixar, passando per l’Italia, Lindau, Torino, 2013.

[7] Simmel G., La moda, Mondadori, Milano, 1998 (ed. or. 1911).

[8] Ivi, p. 21.

[9] Carrasi V., “Il corpo come maschera. Dai monstra medievali ai giganti di Rabelais”, in Sisto P., Totaro P. (a cura di), La maschera e il corpo, Progedit, Bari, 2012, p. 42.

[10] Lemaire S., Blanchard P., Bancel N., Boëtsch G., Deroo É., Zoo umani. Dalla Venere ottentotta ai reality show, Ombre Corte, Verona, 2003 (ed. or. 2002).

[11] Esposito G., “Il boss delle cerimonie finisce in Parlamento. Sel avverte il Governo: “Proprietario La Sonrisa ha rapporti con la camorra, basta trasmissioni in Rai”, in Retenews24, 07/01/2014.

[12] Turner G., Ordinary People and the Media: The Demonic Turn, Sage, London, 2010.

[13] Tarantino C. (a cura di), E la carne si fece verbo. Il discorso sul libertinaggio politico nell’Italia del nouveau régime, Quodlibet, Macerata, 2012.

[14] Kavka M., Television, Affect and Intimacy: Reality Matters, Palgrave Macmillan, New York, 2008.

[15] Kundera M., L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano, 1989 (ed. or. 1984), p. 256.

[16] Simmel G., op. cit., p. 16.

[17] Foucault M., L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano, 2002 (ed. or. 1984).

[18] Ferrari Bravo L., Serafini A., Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano, Ombre Corte, Verona, 2007.

[19] Petrillo A., “Napoli globale: discorsi, territorio e potere nella ‘città plebea’”, in Palidda S. (a cura di), Città Mediterranee e deriva liberista, Mesogea, Messina, 2011.

[20] Si pensi a quanto scrive Alessio Postiglione a proposito dello sfumare dei confini tra la Napoli alta e la Napoli plebea; cfr. Postiglione A., “Griffe e Nichilismo”, in la Repubblica, 18/06/2014.