Stringemmo i denti. Fenomenologia degli ultras

di Maurizio Zamarra

Il movimento ultras, così come sviluppatosi in Italia dalla fine degli anni Sessanta, è caratterizzato da elementi di forte autoreferenzialità e dall’utilizzo più o meno costante della violenza, in una sorta di parallelismo tra le forme comunicative del movimento e l’etimologia stessa della parola, che rimarca l’estraneità rispetto al contesto del resto della tifoseria.

Nel corso degli anni tale movimento è stato considerato come un incubatore di rabbia; alcuni commentatori l’hanno definito un miscuglio di vandalismo e ideologia; altri come la fase più organizzata di un fanatismo giovanile che faceva il verso alle bande armate degli anni Settanta.

Il movimento napoletano, invece, è sempre stato refrattario alle etichette. Gli ultras partenopei, per circa trent’anni, hanno rappresentato il catalizzatore della collera in città, senza distinzioni né categorie; l’aggregazione, in un certo senso, è avvenuta proprio perché il fenomeno era totalmente estraneo ai movimenti sociali del proprio tempo. Pertanto, è stato l’ambiente esterno a legittimare l’esistenza e il ruolo degli ultras, un’esistenza che nel frattempo diventava presenza, grazie alla comparsa di elementi tangibili, a cominciare dai murales sparsi in ogni dove in città.

Due sono le specificità rilevanti rispetto al resto del paese. La prima è costituita dall’assenza di requisiti per l’accesso ai gruppi. Laddove nel resto d’Italia occorrevano particolari qualità (colore politico, sottocultura di provenienza, estrazione sociale), a Napoli bastava risiedere in un determinato quartiere. Per questo motivo i gruppi ultras sorti nell’arco di tempo che va dal primo scudetto (1987) al ritorno in pianta stabile della squadra in serie A (2007) rappresentano uno dei movimenti di aggregazione giovanile più trasversali ed autentici sorti in Italia in quegli anni.

La seconda caratteristica è determinata da una peculiarità della città stessa. Napoli è una metropoli che spesso recepisce le tendenze provenienti dall’esterno con un considerevole ritardo, aggiungendo alle mode nazionali o straniere elementi identitari, plasmandole sulle caratteristiche del contesto cittadino. Allo stesso modo, gli ultras napoletani hanno mescolato nel tempo originalità e anacronismi. È, questo, uno dei motivi per cui risulta difficile inquadrarli dentro schemi o categorie classiche del movimento. Proveremo allora a elaborare un percorso in tre tappe, o epoche, che chiameremo teologica (fondante), metafisica (intermedia), positiva (conclusiva).

La prima, teologica, rappresenta il momento in cui il fenomeno è allo stato di natura: nessuna regola, solo irrazionalità. Il potere è nelle mani dell’homo homini lupus. Lo scontro fisico è la normalità. A Napoli questo periodo si circoscrive tra la nascita del tifo organizzato in curva A (agli inizi degli anni Novanta) e la fine del secolo.

La seconda tappa è quella metafisica, uno stadio intermedio in cui lo stallo apparente è in realtà foriero di cambiamenti drastici. Il potere è gestito in apparenza dal capo gruppo, ma la trasformazione avviene all’oscuro: il movimento sta perdendo lentamente le sue peculiarità e la sua credibilità. È il periodo che comincia all’inizio del nuovo millennio (in concomitanza con la tragica morte del napoletano Sergio Ercolano) e termina nel 2007, con la morte dell’ultras laziale Gabriele Sandri.

Infine la terza tappa, il periodo positivo. L’irrazionalità iniziale è diventata calcolo prudenziale. La carica aggregativa del movimento perde intensità e vigore, l’ordine viene imposto in maniera coatta dalle nuove leggi elaborate in materia. Il capo è delegittimato. Lo scontro è lungamente organizzato e perde la sua naturalezza. Sono gli anni della tessera del tifoso e della fine del movimento ultras così come si era sviluppato finora.

Fase teologica. L’ascesa

Alla fine degli anni Ottanta, a dettare la linea all’interno dello stadio San Paolo è il Commando Ultrà. Il gruppo è originario della Loggetta ed è nato nel 1972. Ha un’attitudine da tifoseria filo-societaria, accondiscendente con molte delle rivali. Senza questa gestione accomodante, però, non si sarebbe mai realizzato il salto di quantità degli anni Novanta. L’impatto della curva A delle origini, infatti, è devastante, totalmente in discontinuità con il passato. La curva A diventa in breve tempo un assembramento di gruppi disorganizzati ma coerenti nel perseguire un obiettivo comune: lo scontro. Sebbene siano anni di soddisfazioni e festeggiamenti conseguenti ai buoni risultati calcistici, la nuova componente ultras riflette le frustrazioni legate alle problematiche sociali che coinvolgono la città (terremoto, disoccupazione, smantellamento dei distretti industriali, guerre di camorra).

I gruppi sono l’espressione dei diversi quartieri. Nel periodo in cui smartphone e Facebook non sono nemmeno nella fase embrionale, i bar e le piazze sono il ritrovo social. In questo modo a orari casuali, e poi meglio definiti, iniziano a incrociarsi gli abitanti della zona, per lo più giovani, accomunati dalla passione per il Napoli e dallo scontento per i rapporti di forza presenti all’interno dello stadio. Nascono così la Masseria Cardone a Secondigliano e i Mastiffs nei Decumani, nell’agosto del 1991. I Vecchi Lions nel settembre del 1992 a piazza Sannazaro, ma con una costola al Vomero. Il Nucleo nel 1993 a Secondigliano; il Sud tra San Giovanni e Barra nel 1996; il Bronx a Portici e con frammenti di piazza Mercato nel 1999.

L’impatto negli stadi è segnato dalla discontinuità. Si rompono tutti i gemellaggi esistenti, eccetto quello con il Genoa. Va scomparendo l’utilizzo dei tamburi e il materiale si allontana dai colori sociali. Lo stile non è tanto nel vestiario quanto nell’azione, anche se la cromaticità è elemento che caratterizza il nuovo corso. Si cominciano a utilizzare il blu scuro e il nero per drappi e stendardi; il verde mimetico dei bomber diventa una costante. Si avvia così la costituzione di un movimento di uomini che fa il verso a un corpo paramilitare. Di questo movimento fanno parte anche i gruppi ispiratori del cambio di direzione: il più longevo della storia ultras partenopea è quello dei Fedayn[1], nato nel quartiere Corallo nel 1979 e unico tra questi a occupare una gradinata della curva B; poi le Teste Matte di Montecalvario, nate nel maggio del 1987; infine la Brigata Carolina, sorta nel 1989 nei Quartieri Spagnoli.

L’apice dell’approvazione cittadina gli ultras napoletani lo raggiungono negli anni sportivi più bui, quelli della permanenza costante della squadra in serie B, tra la fine dei Novanta e i primi del Duemila. Lo stadio è vuoto e chi ci si avvicina lo fa quasi esclusivamente per la fascinazione che prova nei confronti dei gruppi di quartiere. Gli adolescenti dei nuclei originari sorti a cavallo dei Novanta sono cresciuti di dieci anni. Vi è una selezione tra tutti i soggetti socialmente più aggressivi e quelli che restano iniziano a fare dello stadio una ragione di vita, coagulando un’enorme schiera di adolescenti pronti a seguire le loro orme. Si determina così una gerarchia interna: i capi, il gruppo, gli esterni.

Fase metafisica. L’occasione mancata

All’inizio del 2000 la gestione sportiva disastrosa del duo Corbelli-Ferlaino legittima la protesta. Nel luglio 2001, a seguito del ritorno in serie B dopo un anno nella massima serie, sono più di cinquemila i “tifosi in rivolta a Napoli contro Corbelli e Ferlaino[2]”. Ultras, sì, ma accompagnati anche dai semplici appassionati. “Siamo con voi”, scrivono i commessi di un negozio di abbigliamento su un cartello esposto nelle vetrine. Passano così (quasi) sotto silenzio alcune vicende che in altri momenti avrebbero causato uno scalpore assai maggiore. In primo luogo, quella riguardante il difensore azzurro Francesco Baldini. “Torna la violenza ultras a Napoli: ieri notte, al termine dell’anticipo tra la squadra partenopea e il Palermo, il difensore Francesco Baldini è stato aggredito da alcuni sconosciuti sotto casa[3]”; ancora, lo schiaffo rifilato al giocatore Matteo Villa da un tifoso che ha invaso il campo durante la partita di serie B il 15 maggio 2002, a Cosenza, gara che di fatto decreta la fine delle speranze per un ritorno nella massima serie della squadra. Gli ultras accusano i calciatori di scarso impegno e di non rendere onore alla maglia che indossano. Una maglia per la quale loro, invece, sono pronti a fare sacrifici di ogni genere.

L’aggregazione procede spedita. I giovanissimi, animati da pruriti di violenza e carichi di adrenalina, seguono le indicazioni dei gruppi e dei loro capi, sempre con rigida divisione di settore all’interno degli impianti. La macchina organizzativa ha un costo pari a zero: con l’uso della forza si bypassa il costo dei viaggi in treno e dei biglietti d’accesso allo stadio.Sorgono nuovi gruppi: il Rione Sanità, nell’omonimo quartiere, e il Fossato Flegreo nella zona di Fuorigrotta, Cavalleggeri e Rione Traiano, nel 2003. L’Area Nord, nella zona tra Secondigliano e Miano, nel 2004.

È in questa fase che si registra il fenomeno delle mini-paranze, ovvero gruppetti di una dozzina di elementi che gravitano intorno ai gruppi maggiori. Questi ultimi, nel frattempo, hanno espanso il proprio raggio d’azione, non più di quartiere in quartiere, ma con un radicamento anche nella provincia, in ragione delle caratteristiche comportamentali (attitudine allo scontro, ricercatezza dello stile, predilezione per l’aspetto canoro). Alla già presente gerarchia interna dei gruppi va ad aggiungersi una struttura piramidale nella gestione del tifo in casa e in trasferta: gruppi ultras; mini paranze; semplici tifosi.

Sono gli anni dell’apogeo del movimento ultras. Al contempo, è anche l’inizio del declino. Se da un lato, infatti, i capi accumulano maggior potere, dall’altro si rivelano inadeguati a gestirlo. Tutti i gruppi partenopei sono accecati dall’ambizione di imporre il proprio volere e ben si guardano dall’affrontare le difficoltà che scaturiscono da questo modus operandi. Soltanto i Fedayn, o quasi, in questa fase, ricevono espliciti attestati di stima sia da parte di tifoserie rivali che da non-tifosi. Viene riconosciuta loro la capacità di affiancare la vita ultras a una vita “normale”, senza farsi sedurre dall’aura di onnipotenza che circonda gli altri volti noti del movimento. Questo, però, non fa che rendere il gruppo ulteriormente elitario, arroccato su posizioni conservative, anziché di apertura.

Infine, l’incantesimo si rompe. Il 20 settembre 2003 muore ad Avellino Sergio Ercolano. Il giovane non appartiene a nessun gruppo, è semplicemente un tifoso che scappa da una carica della Celere originata dal consueto tira e molla per l’accesso senza biglietto allo stadio, ma soprattutto da una pessima gestione organizzativa dell’evento, fuori e dentro l’impianto. A seguito della morte di Ercolano, la partita di Avellino diventa quella in cui gli ultras del Napoli danno sfogo al più alto livello di violenza mai registrato all’interno di uno stadio italiano. Entrano in campo, allontanano le forze dell’ordine dal terreno di gioco, si fanno padroni assoluti della situazione nel tentativo di far entrare un’ambulanza per soccorrere il giovane esanime. Risulterà tutto inutile.

Cosimo Villari, all’epoca tra i capi di uno dei gruppi egemoni della curva A, la Masseria Cardone, scriverà qualche tempo dopo nel suo libro, Primo nemico[4], che quella sera, insieme ad alcuni membri del gruppo, una volta tornato al pub, rimase a osservare le scene degli scontri in televisione per lungo tempo, giocando a riconoscersi in video con i suoi compagni, nonostante i volti coperti. È quella sera che si ripresenta la sindrome di Masaniello, il capo incapace di amministrare un potere trovatosi tra le mani per uno scherzo del destino.

Fase metafisica. La palude

Sebbene alla morte di Sergio Ercolano non facciano seguito particolari misure legislative, i gruppi ultras partenopei si ritrovano nell’occhio del ciclone e sulle bocche di tutta Italia. Qualcosa di già accaduto in passato, ma non con tanto vigore. Per la prima volta dalla loro nascita, gli appartenenti al movimento napoletano devono fare i conti con un decesso in un contesto da stadio[5]. A seguito della condanna unanime per gli incidenti di Avellino diventa molto difficile recuperare consenso. Questo, però, agli ultras non interessa. In una cornice normativa che li rende liberi di dettare legge, nei viaggi e durante le partite, a nulla serve l’appoggio del tifoso comune, da cui viene progressivamente delegittimato.

L’aggregazione non diminuisce, considerando anche la palude sportiva in cui è invischiata la squadra. Chi va allo stadio è conscio di andare ad assistere a uno spettacolo poco entusiasmante, e in molti casi è più interessato al mondo delle curve o quantomeno al loro modo di assistere alla partita. Nel 2005 nasce la Nuova Guardia di piazza Canneto, e contemporaneamente si realizza la scissione dei NISS (acronimo di Niente Incontri Solo Scontri) dalle Teste Matte, una scissione comunque mai totalmente avvenuta da un punto di vista formale. Il fenomeno delle mini-paranze si moltiplica in quanto, per i neofiti delle curve – una generazione successiva a quella operante negli anni Novanta, impregnata di una cultura ultras diffusasi tramite internet – diventa lampante l’incapacità di gestione dei vecchi capi. È così che gli anni della serie C (2004-2006) segnano il canto del cigno del movimento.

Da un lato, l’assembramento paramilitare risulta pienamente realizzato, sia per le tecniche di scontro e movimento, che da un punto di vista stilistico. Il parka diviene l’indumento più utilizzato, così come il cappellino da baseball con loghi di marche di birre è il tratto distintivo tra i copricapo. Il risultato non è solo l’attraversamento e successivamente l’identificazione con la cosiddetta sottocultura casual (per cui un abbigliamento comune è utilizzato per rendere più difficile il riconoscimento, a forze dell’ordine e ultras nemici, degli appartenenti a un movimento che si pone come obiettivo la clandestinità), ma la velleità di rappresentare un unicum nella galassia ultras del tempo.

Dall’altro lato, l’isolamento diventa sempre più tangibile. Il nuovo scenario vede la nascita di una società rinnovata (guidata dall’attuale presidente De Laurentiis) che promette il ritorno in ranghi più dignitosi per la squadra. A un afflusso maggiore e più costante dei tifosi definiti occasionali, al San Paolo e in trasferta, si aggiunge l’inasprimento delle norme in materia di reati da stadio (la legge Pisanu nel 2005 e la legge Amato nel 2007, a seguito della morte dell’ispettore Filippo Raciti).

L’inadeguatezza mostrata in occasione della morte di Sergio Ercolano diventa a questo punto ancora più evidente. Laddove un consenso esterno avrebbe potuto rappresentare l’unica ancora di salvezza contro gli esperimenti normativi del cosiddetto Laboratorio Stadio[6], gli ultras partenopei, memori di un recente passato durante il quale tutto era apparso possibile (scontri, viaggi senza regole, entrate a spinta negli stadi), proseguono nella linea di condotta portata avanti fino a quel momento, chiudendosi ulteriormente nell’autoreferenzialità.

Il grido di ribellione, a tratti originale, degli anni Novanta ha però perso quasi tutto il proprio vigore. Come ogni movimento sociale incapace di rinnovarsi dall’interno, gli ultras, con i partenopei in testa, risultano a questo punto obsoleti, superati dalla velocità dei cambiamenti nel mondo circostante. Caso esemplare è la gestione della bufala della trasferta a Roma nel 2008[7], quando il capo-portavoce dei Fedayn e alcuni membri della curva A convocano una conferenza stampa in piazza Bellini, nel tentativo di denunciare quella che in effetti si rivelerà una macchinazione ai loro danni. Il risultato è un pugno di mosche: trasferte vietate e colpevolizzazione degli ultras, incapaci di (di)mostrare alla stampa la verità su quanto accaduto quel giorno.

Arrivano intanto gli anni della deriva del fenomeno ultras. A Napoli un po’ in ritardo, a dire il vero, dato l’entusiasmo per le due promozioni di fila, dalla C alla A. Il redde rationem si presenta con la morte di Gabriele Sandri.

Fase positiva. La sopravvivenza

Nove mesi dopo la morte dell’ispettore di polizia Raciti, avvenuta a Catania il 2 febbraio del 2007, e la conseguente interruzione dei campionati per una giornata, l’11 novembre muore Gabriele Sandri, ultras laziale, ucciso da un’agente di polizia nel tentativo di sedare una rissa con ultras della Juventus, all’interno dell’autogrill di Badia al Pino. I due accadimenti si presentano come inediti per due ordini di motivi: nel caso di Raciti, è la prima volta che un ispettore di polizia trova la morte nel contesto di una partita; nel secondo, è la prima volta che un ultras italiano viene ucciso per mano di un poliziotto. I due avvenimenti si segnalano come la Hillsborough[8] del calcio italiano. Venti anni dopo la tragedia inglese, gli ultras subiscono lo stesso trattamento dei colleghi d’oltremanica e inizia per loro un processo di espulsione dagli stadi.

I napoletani si trovano a questo punto spiazzati. Le proteste organizzate sono inefficaci e anzi non fanno che allontanare sia il tifoso comune che il non-tifoso dalle loro posizioni. Nessuno, d’altronde, prova compassione per soggetti che rifiutano la solidarietà. Inoltre, a seguito di un decennio in cui i gruppi ultras sbocciavano in curva A, si assiste a un lento arrotolamento di striscioni. Scompaiono nel tempo sia le Teste Matte (progressivamente, dal 2006), che il Bronx (2015). La Masseria Cardone risulta attualmente sdoppiata: una costola è trasmigrata in curva B, sotto il vessillo Secco Vive; un’altra parte del nucleo originario è da poco ricomparsa in curva A. Nelle stesse curve, nel frattempo, la disorganizzazione fa emergere in maniera inclemente tutti i problemi. L’incapacità di fare fronte comune o di prendere scelte nette e razionali sfalda ulteriormente i gruppi.

L’immagine della disfatta è fornita dall’ultimo gruppo ultras nato e – formalmente – morto a Napoli nel giro di pochi anni: la Zona Psyco, sorta nel biennio 2006-2007 come una paranza di ragazzi molto giovani e di anziani fuoriusciti da altri gruppi, che si posizionano sotto il gate 19 della curva A, da cui mutuano successivamente il nome diventando a tutti gli effetti un gruppo ultras. L’idea motrice è il richiamo a un tempo passato che la maggior parte degli appartenenti al gruppo non ha vissuto. Il gruppo viene in poco tempo allontanato dalla curva A, di cui non condivide la gestione diplomatica, e successivamente sceglie di non militare con costanza, ritornando a essere una sorta di paranza/mina vagante.

La notte di Roma

In un certo senso, è possibile spiegare la fenomenologia degli ultras a Napoli, attraverso una consuetudine radicata in città, che a volte è necessità, altre mito abusivo: la prevaricazione. Gli ultras si sono sedimentati in quanto hanno potuto posizionare i loro vessilli nello stadio basandosi sui rapporti di forza. Per questa ragione migliaia di giovani di tutte le zone della città e di tutte le estrazioni sociali ne sono rimasti affascinati. È quindi nata l’aggregazione, così si è costruita la militanza. La prevaricazione interna, una volta raggiunta una situazione di equilibrio stabile, si è progressivamente spostata sul piano del confronto con il rivale – e lì non si poteva che risultare vincenti. Per più di un decennio, gli ultras partenopei hanno dettato legge in tutto il paese, probabilmente in quanto i più esperti nel campo della violenza.

Quando questo campo è stato regolamentato dagli interventi normativi è mancata la lucidità per affrontare altri generi di difficoltà. La capacità propagandistica e l’impatto, a tratti eversivo, potevano essere canalizzati nelle problematiche quotidiane. Non a caso, gli scontri per impedire l’apertura delle discariche di Pianura, Chiaiano e Terzigno hanno visto la presenza di ultras provenienti da ogni parte della città. Ma con l’istituzione della tessera del tifoso, l’ultras a Napoli è andato via via scomparendo. Il binomio staticità/dinamicità si è ridotto unicamente al primo termine e l’istanza di prevaricazione ha fatto sì che gli ultras non abbandonassero i gradoni del San Paolo. Attualmente, i gruppi ultras non possono seguire la squadra in trasferta, non avendo sottoscritto la tessera, seppure i singoli elementi dei gruppi vivano di ripensamenti annui; le trasferte hanno assunto un costo spropositato nel calcio vetrina, tra biglietti e spostamenti che non sono più aggirabili in alcun modo; la piramide ultras non è più un fenomeno prettamente di quartiere, soppiantata dall’interazione su internet; Napoli non trasmette più originalità stilistica e comportamentale, anzi i suoi ultras si sono uniformati allo stile british/italico che trova i propri riferimenti nelle marche e nei brand a cui ci si è assuefatti attraverso le produzioni televisive e cinematografiche sugli hooligan inglesi.

L’ultima prova è stata fornita nella drammatica sera del 3 maggio 2014. Alla notizia del ferimento a morte di Ciro Esposito con un colpo di arma da fuoco da parte di un ultras storico della Roma, i capi dei gruppi napoletani avevano la possibilità di scegliere tra due opzioni: non entrare nello stadio e reagire in maniera violenta, all’esterno; entrare e comportarsi in maniera altrettanto violenta, così come avvenne in occasione della morte di Sergio Ercolano, andando incontro però – a differenza di ciò che accadde per molti in quella circostanza – a una pena certa. La scelta ricadde su una terza via. Fu chiesto dalla maggior parte dei gruppi di poter uscire dallo stadio. Altri decisero di rimanere e assistere in silenzio alla partita, previa garanzia da parte delle forze dell’ordine che il ragazzo non fosse morto. Nel gesto della cancellata dell’Olimpico e nel parlamentare con la polizia, termina la parabola degli ultras partenopei: la spettacolarizzazione della prevaricazione.

La scelta operata nella notte romana si rivelò infelice e gli ultras vennero unanimemente condannati dall’opinione pubblica. Per il mondo esterno allo stadio destarono scalpore le immagini della presunta trattativa che avrebbe avuto come oggetto la decisione di lasciar giocare o meno la partita; per quello delle curve, fu la mancata reazione degli ultras, a risultare inaccettabile. Quelle immagini divennero il simbolo di un’occasione persa per gli appartenenti al tifo organizzato partenopeo: quella di mostrare, nel bene e nel male, la propria vera natura.

[1] I Fedayn meritano una menzione a parte, sebbene una narrazione abbastanza efficace delle loro gesta si possa recuperare da diverse fonti, a cominciare da un noto documentario del 2001, E.A.M. Estranei Alla Massa, di Vincenzo Marra. Con il passare degli anni, il gruppo in questione rappresenta a pieno la parabola del movimento ultras partenopeo. Si tratta di un gruppo che ha sempre rivestito un certo fascino anche al di fuori dello stadio, in quanto formato da uomini dotati in molti casi di intelligenza e sensibilità superiori alla media degli appartenenti al movimento, e molto attenti nella gestione delle situazioni più delicate. I Fedayn, nel corso degli anni, non si sono piegati ad alcuna esternalità, finendo però col rimanere pochi e isolati, seppure eticamente inattaccabili e particolarmente validi dal punto di vista ultras.

[2] Corriere della Sera, 07/07/2001.

[3] La Repubblica, 30/11/2002: www.repubblica.it/online/calcio2002_serie_b/baldini/baldini/baldini.html.

[4] Villari C., Primo nemico, Boogaloo publishing, 2006.

[5] Storicamente la nascita dei primi gruppi ultras in Italia avviene alla fine degli anni Sessanta. La durezza degli scontri raggiunge l’apice negli anni Ottanta. Per questo motivo, un movimento sviluppatosi in maniera organica solo negli anni Novanta si può ritenere “giovane”, e pertanto la morte di Sergio Ercolano rappresenta una sorta di tardivo battesimo del fuoco.

[6] Con l’espressione si intendono quelle misure repressive che, motivate dal dato emergenziale e dalla pressione dell’opinione pubblica, vengono applicate in via sperimentale negli stadi per poi essere allargate ad altri settori della società civile. Su tutti il Daspo (divieto di assistere alle manifestazioni sportive) che si propone tutt’ora di estendere alle manifestazioni di piazza.

[7] Nell’agosto del 2008 gli ultras partenopei organizzano in treno la trasferta alla volta di Roma. Nonostante siano tutti muniti di regolare biglietto, viene organizzato un “convoglio speciale” (vietato dalla legge) che giunge a Roma solo a partita iniziata. Nei giorni seguenti, gli ultras vengono accusati di aver provocato danni al treno per centinaia di migliaia di euro, causando la sospensione a tempo indeterminato della libertà di poter seguire la squadra in trasferta. Un anno dopo l’accaduto, si scopre che la cifra era stata clamorosamente gonfiata. La Procura di Napoli chiede l’archiviazione dell’inchiesta sui fatti del 31 agosto, quando la stazione centrale di Napoli divenne il teatro di un presunto assalto al treno da parte dei tifosi del Napoli diretti a Roma. La stampa aveva parlato di devastazione e violenze ai danni dei passeggeri cacciati dai vagoni, mentre Trenitalia quantificava i danni in cinquecentomila euro. Una tesi smentita da un’inchiesta di Rai News 24 dal significativo titolo “La bufala campana”, che sulla base di riscontri e testimonianze fornisce una ricostruzione molto diversa dell’accaduto.

[8] Nome dello stadio inglese in cui il 15 aprile 1989 si verificò la strage che costò la vita a novantasei persone. Da lì in poi si susseguirono le misure normative del governo inglese volte a debellare il movimento ultras dagli stadi.