I siti archeologici dell’area vesuviana

di Simone Foresta

Le vicende che hanno determinato la scoperta e il recupero dei siti sepolti dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. sono spesso ignorate o semplificate, ma esse sono state fondamentali nel costruire l’attuale percezione del passato e nel determinare le strategie di conservazione e valorizzazione del nostro patrimonio archeologico.

L’esistenza di reperti archeologici sotto gli strati di terreno vulcanico nell’area vesuviana era nota già alla fine del Cinquecento. Nei secoli successivi, per i casuali scopritori, i marmi, i pavimenti e le strutture antiche erano esclusivamente materiali utili per edificare o decorare nuovi edifici. Nel 1711 un abitante di Resina, Giovanni Battista Nocerino, rinvenne in modo fortuito dei marmi colorati, riconosciuti successivamente come i resti del teatro dell’antica città di Ercolano. Emanuele Maurizio di Lorena, duca d’Elbeuf e principe di Lorena, luogotenente generale della cavalleria asburgica a Napoli, dovendo edificare la sua villa a Portici, credette opportuno recuperare quei marmi “per servirsene spolverizzandolo, per terminare l’intonaco sopraddetto della sua Villa”[1]. Statue e colonne divennero parte del’arredo della villa di Portici e del palazzo del Belvedere di Vienna, ma gli scavi per cunicoli furono interrotti dalla magistratura locale per evitare crolli degli edifici moderni realizzati nell’area. Nel 1734 i regni di Napoli e di Sicilia, sotto il dominio austriaco, furono conquistati da Carlo di Borbone, divenuto re delle due Sicilie; egli nel 1738 diede ufficialmente avvio al recupero dei monumenti ercolanesi grazie all’intervento degli ingegneri del Genio militare.

Da tesoro del re a proprietà della nazione

Nel 1748 furono intrapresi in modo sistematico gli scavi della città antica di Pompei, iI cui dissotterramento fu compiuto fino al 1760-70 con il solo scopo di recuperare oggetti di interesse artistico. La scoperta del tempio di Iside e di altri settori monumentali determinò la decisione di comprendere le caratteristiche e l’estensione della città, circondata da una possente struttura muraria. Nel 1751 fu realizzato presso la Reggia di Portici il Real museo ercolanese: qui i reperti portati alla luce vennero restaurati ed esposti fino al 1767, quando un’eruzione del Vesuvio rese più opportuno trasferire le opere a Napoli, in un nuovo museo che accogliesse anche la collezione Farnese. Dalle leggi di tutela degli oggetti d’arte e di antichità promulgate a partire dal 1755 da Carlo III, riconosciamo come il patrimonio archeologico del regno fosse considerato proprietà esclusiva dela Casa Reale. Gli oggetti antichi recuperati nei siti di Ercolano, Pompei e Stabia rappresentavano per i Borbone motivo di prestigio internazionale e risorsa economica, oltre che miniera di documenti storici utili alla conoscenza del passato. Ma solo un pubblico selezionato, a cui era interdetta ogni possibilità di disegnare o prendere appunti, poteva accedere alle collezioni o visitare gli scavi. L’interesse borbonico non si limitò a Ercolano e Pompei; già nel Settecento fu individuata la villa di Poppea a Oplontis (attuale Torre Annunziata), indagata nel 1839 attraverso profondi pozzi in cui erano calati gli scavatori e portata alla luce durante gli scavi moderni tra il 1964 e il 1984. Rocco Gioacchino d’Alcubierre, capitano del Genio militare, e successivamente Karl Weber, indagarono a partire dal 1749, su incarico di Carlo III, anche l’area di Stabia, nei pressi della collina del Varano. Nel corso di varie indagini condotte fino al 1962 furono individuate sei ville lungo la costa, dieci nell’entroterra e un’area urbana di 45 mila metri quadrati.

Nel settembre del 1860 Garibaldi conquistò il regno di Napoli. Immediatamente il museo borbonico e gli scavi di Pompei vennero dichiarati beni della nazione gestiti dal ministero dell’istruzione pubblica, mentre un cospicuo finanziamento permise il recupero del sito abbandonato da mesi e la ripresa degli scavi archeologici. Con l’unità d’Italia, divenuto soprintendente Giuseppe Fiorelli, patriota e professore di Archeologia presso l’Università di Napoli, si iniziò un vasto programma di scavo, pubblicazioni e restauro.

Gli eventi più significativi per il sito pompeiano nel corso del Novecento sono la lunga gestione del sito da parte di Amedeo Maiuri, soprintendente agli scavi e alle antichità della Campania, dal 1923 al 1961, che intervenne tra l’altro per limitare i danni provocati dai bombardamenti degli alleati nel 1943; il terremoto del 1980, che provocò danneggiamenti a molte strutture, e infine l’attività di indagine e studio affidata dal 1998 a enti e università italiane e straniere.

Più lento e complicato è stato il proseguimento degli scavi presso il sito di Ercolano. I duri e spessi strati vulcanici hanno reso lunghe e costose le indagini archeologiche, condotte tra il 1869 e il 1875 da Fiorelli grazie a un contributo economico personale di Vittorio Emanuele II. Solo nel 1924, Maiuri riuscì a sottrarre all’espansione urbanistica di Resina sette ettari di terreno che nascondevano la città antica. Il dissotterramento e restauro di buona parte della città antica attualmente visitabile fu compiuto fino al 1958. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento furono intrapresi scavi da parte di privati cittadini proprietari di terreni nell’area di Boscoreale. Furono individuate circa trenta villae rusticae, spesso con ricchi apparati decorativi e preziosi arredi, venduti e dispersi sul mercato antiquario.

La città di Pompei aveva un’estensione di circa 66 mila metri quadrati. L’attività archeologica compiuta nel corso di più di 270 anni ha permesso di riportarne alla luce una porzione ampia circa 45 mila, mentre sotto gli strati di ceneri ne giacciono ancora più di 20 mila.. Mai nesssun sito archeologico ha restituito un numero così vasto di strutture e reperti: si conservano i resti di 1.500 edifici, che occupano un volume di 2 milioni di metri cubi; molti sono dotati dei rivestimenti pavimentali (marmi e mosaici: 12 mila mq) e parietali (intonaci: 20 mila mq; dipinti: 17 mila mq).

L’area dell’antica Ercolano sepolta da strati di ceneri, lapilli e fango, di spessore variabile tra 16 e 30 metri, era di 20 mila metri quadrati; di questi ne sono stati portati alla luce circa 4.500, un’area visitabile dieci volte minore a quella di Pompei. Circa 60 sono gli edifici ercolanesi con funzioni pubbliche e private portati alla luce in 300 anni di attività archeologica. Oltre agli affreschi e ai pavimenti, conservatisi in proporzioni analoghe a quelle di Pompei, gli strati vulcanici hanno permesso la conservazione, in assenza di ossigeno, di materiali organici (legno, fibre vegetali, cibi).

Nell’area degli scavi di Ercolano è stato edificato nei primi anni Settanta del secolo scorso un Antiquarium per conservare circa 500 reperti capaci di illustrare la storia del sito e della sua scoperta. Lo spazio espositivo, costato 1 milione e 200 mila lire, erogati dalla Cassa del Mezzogiorno, non è mai stato aperto al pubblico. Nell’area della villa rustica in località Villa Reginam a Boscoreale, nel 1991 è stato inaugurato dalla soprintendenza archeologica di Pompei un Antiquarium che presenta al pubblico una selezione di reperti recuperati nei principali siti dell’area vesuviana (Pompei, Ercolano, Oplontis, Stabia, Terzigno, Boscoreale), che ben illustrano la storia dei luoghi e le modalità di sfruttamento del territorio nel corso del tempo.

 Gli organi di gestione dall’unità d’Italia a oggi

All’indomani dell’unità d’Italia, Giuseppe Fiorelli fu nominato direttore degli scavi di Pompei fino al 1875, mentre nel 1866 fu istituita la Scuola archeologica italiana in Pompei, con il fine di formare archeologi specializzati nelle antichità pompeiane attraverso un percorso di studio non esclusivamente accademico. Continuò inoltre l’attività dei soprintendenti generali degli scavi del regno, che dai primi anni dell’Ottocento dirigevano le indagini archeologiche con il supporto dei direttori locali degli scavi (ancora oggi nominati per Pompei, Ercolano, Stabia, Oplontis, Boscoreale). La Direzione centrale degli scavi e dei musei del regno, istituita nel 1875, e dal 1907 le soprintendenze territoriali, sono dipese fino al 1975 dal ministero della pubblica istruzione. Da allora la gestione del patrimonio culturale e ambientale, compreso quello dei siti vesuviani, è stata affidata al ministero per i beni culturali e ambientali, istituito da Giovanni Spadolini.

Il terremoto del 1980 provocò gravi danni ai siti vesuviani. Metà degli edifici pompeiani furono puntellati e per gestire – in modo poco limpido – i fondi (100 miliardi di lire) e gli interventi di consolidamento e restauro fu creata la soprintendenza di Pompei, svincolata dal resto della provincia di Napoli e dal Museo Archeologico. Nel 1997, anno in cui la città di Pompei è stata riconosciuta patrimonio dell’Unesco, la soprintendenza è stata dotata di autonomia scientifica, amministrativa e finanziaria, mentre all’attività del soprintendente è stata affiancata quella di un dirigente amministrativo.

Nel 2001 il sito di Ercolano è stato annoverato dall’International council on monuments and sites, organizzazione internazionale non governativa, tra i siti culturali a rischio, ma grazie al sostegno di David W. Packard, presidente del Packard Humanities Institute, è stato messo in atto l’Herculaneum Conservation Project, il più efficace progetto per la conservazione archeologica in Europa. Nel 2007 la riorganizzazione del ministero ha determinato l’istituzione della soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei, con autonomia di bilancio, ma una articolata campagna mediatica sullo stato d‘emergenza nell’area archeologica ha portato alla nomina di un commissario straordinario per Pompei, attivo dal 2008 al 2010 (il commissario Marcello Fiori è stato successivamente indagato per abuso d’ufficio, frode nelle pubbliche forniture, truffa ai danni dello stato). Nel gennaio 2014 è stata istituita la soprintendenza speciale per i beni archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Il decreto n. 34/2011 (art. 2) ha dato vita a un programma straordinario di interventi denominato Grande Progetto Pompei, finanziato dall’Unione europea con 105 milioni di euro, da impegnare entro dicembre 2015 in progetti di riqualificazione.

Privato a Ercolano, pubblico a Pompei

Nel 2001, con il sito di Ercolano in stato di estremo degrado e la chiusura di due terzi della città antica, il Packard Humanities Institute decise di sostenere la soprintendenza speciale per Napoli e Pompei con un progetto denominato Herculaneum Conservation Project, a cui ha aderito come partner anche la British School at Rome. Il progetto si è avvalso nei primi dodici anni di un budget complessivo di circa 20 milioni di euro del Packard Institute, a cui si sono aggiunte ulteriori risorse della soprintendenza. In una prima fase è stato posto rimedio alle minacce infrastrutturali più gravi per la sopravvivenza del sito. Uno dei punti innovativi è stato il coinvolgimento della comunità locale nelle attività di protezione e fruizione del sito archeologico.

Il caso ercolanese è, tra l’altro, un ottimo precedente per valutare la qualità e le modalità degli interventi messi in campo nell’ambito del Grande Progetto Pompei. Tra le azioni più significative condotte nel corso di dieci anni, sono state riparate l’80% di tutte le coperture degli edifici esistenti, il 100% delle strutture murarie e degli apparati decorativi; dal 2006 al 2011 sono stati realizzati 52 interventi archeologici e catalogati più di 4.500 reperti. Intento del progetto ercolanese, che durerà fino al 2020, è quello di restituire alla soprintendenza la manutenzione dell’intero sito e di sostenere ulteriori iniziative di valorizzazione e coinvolgimento della comunità locale.

Il governo italiano, per far fronte alla campagna mediatica che per mesi ha registrato la serie di crolli delle strutture antiche all’interno dell’area archeologica, ha elaborato un progetto per Pompei finanziato dall’Unione europea per portare a termine entro il 2015 interventi di restauro, tutela e messa in sicurezza dell’insula e degli edifici. Responsabile della soprintendenza speciale è Massimo Osanna, già professore associato di Archeologia presso l’Università della Basilicata e soprintendente della Basilicata, da gennaio 2016 professore ordinario di Archeologia classica presso l’Università Federico II di Napoli. Direttore generale del progetto non è stato nominato un archeologo, ma il generale dei carabinieri Giovanni Nistri, da gennaio 2016 sostituito dal generale Luigi Curatoli. Invitalia e Ales, aziende sostenute dal governo, hanno fornito senza concorso risorse professionali e personale di custodia che si aggiunge a quello della soprintendenza. Quattro i piani operativi del progetto: capacity building; sicurezza; fruizione e valorizzazione; infine conoscenza, che prevede la mappatura in 3D dell’intero sito di Pompei. Il progetto prevede inoltre il coinvolgimento dei comuni vesuviani con l’intento di migliorare le vie d’accesso ai siti archeologici, riqualificare i centri urbani moderni e coinvolgere gli enti non profit nella valorizzazione del patrimonio.

Milioni di visitatori

Gli innumerevoli crolli e disservizi non sembrano aver dissuaso i turisti di tutto il mondo dal visitare i siti vesuviani. Dal 1965 il numero dei visitatori nell’area vesuviana è cresciuto progressivamente, ma in modo esponenziale negli ultimi decenni. Nel ’65 i visitatori di Pompei erano 850 mila, ma nel 1980 erano già divenuti 1,4 milioni. Nel 2000 gli ingressi a Pompei sono stati 2.165.739, quelli di Ercolano 237.013, di Oplontis 38.032, di Boscoreale 6.571, ma nel 2014 le presenze a Pompei sono aumentate di circa 500 mila unità, a Ercolano di circa 150 mila, a Oplontis di circa 12 mila, a Boscoreale di circa 4 mila, e infine sono stati registrati 40 mila visitatori a Stabia (solo dal 2008 inserita nei calcoli dei flussi turistici).

Da luglio 2014 ad aprile 2015, le prime domeniche del mese a ingresso gratuito hanno visto l’accesso al sito di Pompei di una media di circa 10 mila visitatori. Segnano un incremento del 60% le visite nel periodo delle festività pasquali del 2015 rispetto all’anno prima. L’incremento del numero dei turisti, ritenuto uno dei successi del Grande Progetto Pompei, sembra in realtà uno dei fattori determinanti nell’accrescere lo stato di emergenza del sito. Le chiusure di molte aree della città obbligano i turisti alla visita di alcuni spazi ed edifici (foro, terme, teatri), che ne risultano così sensibilmente usurati. Ciò che appare più grave è il disinteresse totale verso la qualità della visita. I turisti valgono solo in quanto compratori di un biglietto e non in quanto cittadini di varie nazionalità desiderosi di comprendere a vari livelli la civiltà romana. Nessuno studio o statistica registra i bisogni e le richieste in entrata di coloro che visitano il sito e il loro grado di consapevolezza del sito in uscita; conosciamo così l’incremento dei visitatori, ma non della conoscenza acquisita da questi stessi. In realtà, il poco interesse verso lo stato di abbandono o di difficoltà di altri siti campani di grande interesse (parco archeologico di Cuma, rione Terra a Pozzuoli, museo dei Campi Flegrei nel Castello di Baia) è indizio che la visita pompeiana non rappresenta un’esperienza culturale e civile. È facile invece intuire come spesso essa sia motivata dalla credenza che il sito sia talmente compromesso che meriti una visita prima che sparisca del tutto.

Nonostante il gran numero di turisti, limitati sono i supporti per orientare il visitatore. Più in generale, documentari, pubblicazioni e guide sono curate senza alcun controllo istituzionale da professionalità esterne. In Inghilterra la promozione del sito è affidata a Mary Beard, professoressa di studi classici all’università di Cambridge ed editorialista del Times; in Italia ad Alberto Angela, paleontologo, che grazie a una potente macchina comunicativa ha trasformato Pompei in un suo brand. Lo scarso interesse verso i visitatori è inoltre testimoniato dall’assenza di pagine ufficiali dedicate a Pompei sui social network e dalla scarsa cura delle informazioni presenti nei siti ministeriali. In molti casi le iniziative programmate durante la messa in atto del Grande Progetto hanno trasformato il sito in una quinta scenografica (concerto del trio Il Volo per la tv pubblica americana Pbs, Teatro Grande, 12 giugno 2015; Roberto Bolle and Friends, 25 luglio 2015; Tosca nel Quadriportico degli Scavi, 30 agosto 2015). L’intero progetto appare più finalizzato a trasformare il sito di Pompei in una macchina per attirare turisti, senza che ci sia un’offerta culturale e una rete di servizi e trasporti adeguati.

Pompei e l’archeologia italiana di tutti

I numeri legati al progetto e le istituzioni coinvolte ben illustrano come esso sia essenzialmente un’operazione politica. Il confronto tra la cifra da impegnare entro il 2015 (105 milioni, divenuti 139 grazie a una integrazione indicata nel Piano di azione) e la storia dei precedenti interventi di tutela del sito, rende palese come il progetto fornisca più un’apparenza di efficienza che un reale e duraturo intervento di tutela. Con una solenne cerimonia pubblica dominata dalla presenza del primo ministro Renzi, il 24 dicembre 2015 è stato inaugurato il restauro di sei domus pompeiane, che rappresenta il 40% degli interventi previsti dal progetto, ed è stata concessa un’ulteriore proroga per consentire il proseguimento delle attività previste. Nonostante le rassicurazioni governative, gli interventi in atto non sono stati portati a termine entro il 31 dicembre 2015 e quindi sarà necessario un prolungamento delle attività di restauro, per evitare la restituzione dei finanziamenti comunitari. Nemmeno programmata è l’azione nei comuni adiacenti alle aree archeologiche, mentre sono stati prorogati i contratti dei dipendenti della società Ales che hanno consentito l’apertura di 13 domus pompeiane.

Resta da comprendere se tutte queste iniziative, concentrate in un tempo così breve, saranno capaci di generare una riflessione più profonda in ampi strati della popolazione italiana ed europea. Finora lo stato dei nostri beni archeologici, storico-artistici e paesaggistici è stato relegato a una discussione tra categorie e caste. Da una parte i funzionari del ministero, che per anni hanno gestito con difficoltà e privi di risorse il nostro patrimonio, ma con la colpa di non aver saputo trasformare i disagi gestionali in un problema comune, contrapponendosi spesso con il mondo accademico o con le parti politiche, ma finendo per apparire agli occhi dell’opinione pubblica come dei pedanti burocrati. Il mondo accademico si è sentito l’unico capace di interpretare il passato del nostro paese, ma senza la capacità di incidere sulle scelte politiche o sulla diffusione della conoscenza archeologica. Le emergenze sono diventate un modo per consentire ai docenti di costruire carriere non solo nell’università, ma negli ambiti più disparati (giornalismo, politica, ministero), non preoccupandosi del bisogno di rinnovamento degli studi o del dubbio valore, nel contesto contemporaneo, di interi percorsi di laurea in materie archeologiche, di scuole di specializzazione e dottorati sorti solo per creare cattedre universitarie.

La vera svolta nella tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio archeologico vesuviano, e più in generale di quello italiano, sarebbe costruire una coscienza collettiva capace di partecipare attivamente alle decisioni, spesso determinate da commissari con pieni poteri. Rendere passivi i cittadini, i visitatori e i giovani laureandi non contribuisce certo a fare del patrimonio culturale un bene in cui le comunità riconoscono la loro identità e la sua complessità. Solo attraverso un coinvolgimento trasversale tra chi si occupa di cultura, ricerca e tutela e chi semplicemente cerca dal nostro passato risposte per la vita presente potremmo concretizzare, fuor di retorica, il senso dell’articolo 9 della nostra Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

[1] Venuti N. M., Descrizione delle prime scoperte dell’antica città d’Ercolano, Lorenzo Baseggio, Venezia, 1749.