Il conservatorio dopo la riforma

di Antonio Mastrogiacomo

Da quando siamo stati dichiarati cittadini europei, molte cose sono cambiate. Per esempio, il Processo di Bologna – un imponente processo di convergenza dei vari sistemi di istruzione superiore europei iniziato nel 1999 – è intervenuto per uniformare la didattica, con l’intenzione di sviluppare un sistema unico e integrato che costituisca l’emblema di questa cittadinanza acquisita. Un processo che ha caratterizzato la recente stagione di riforme della pubblica istruzione in Italia, la cui azione è tuttora in via di definizione.

All’interno di questo processo è nato il sistema italiano dell’Alta formazione artistica e musicale (Afam), che comprende le accademie di belle arti, l’accademia nazionale di arte drammatica, l’accademia nazionale di danza, gli istituti superiori per le industrie artistiche, i conservatori di musica e gli istituti musicali pareggiati. La legge 508/99 ha riformato il settore artistico-musicale, recependo il dettato costituzionale che prevede, all’articolo 33, il sistema della formazione artistica parallelo al sistema universitario; nei corsi viene generalmente utilizzato un sistema di crediti formativi basato sul sistema europeo: 180 crediti per il triennio di primo livello e 120 per il biennio di secondo livello.

Origini storiche e legislazione

La riforma ha trasformato il conservatorio (insieme all’accademia nazionale di danza e agli istituti musicali pareggiati) in istituto superiore di studi musicali e coreutica; una dicitura che difficilmente farà breccia nel senso comune.

Fin dalle sue origini (le istituzioni di carità pubblica italiane dei secoli XIV-XV, in cui venivano ospitati orfani e bambini poveri da avviare a una professione), il conservatorio di Napoli rappresenta un istituto specializzato dedicato alla musica. Successore di quattro istituzioni di assistenza e beneficenza, basate sulle forme tradizionali di carità pubblica e privata, dal 1826 ha dimora nell’ex monastero di San Sebastiano, patrimonio prima del regno e oggi della repubblica italiana. Naturalmente non tutta la produzione musicale napoletana è passata da qui. La battaglia tra musica popolare e musica colta ha premiato la seconda, ma la prima ha messo in discussione le sorti della didattica fino a segnarne l’attuale ridefinizione.

L’esigenza di uniformità normativa e organizzativa per i diversi istituti musicali sorge subito dopo l’unità d’Italia. La normalizzazione è affidata ai provvedimenti legislativi del 1912, del 1918 e alla cosiddetta riforma Gentile; la riorganizzazione della didattica viene affrontata nel 1930 e regolerà il funzionamento dell’apparato didattico fino alla riforma della legge 508 del 1999.

La riforma Gentile univa una rigida compartimentazione del sapere a una visione gerarchica della società. Le tasse da pagare erano uguali per tutti (fino a pochi anni fa non superavano i 200 euro). Agli esami erano ammessi anche i privatisti. Il percorso era caratterizzato dallo studio intensivo del proprio indirizzo, affiancato da poche materie complementari (su tutte solfeggio, armonia e storia della musica). Poteva accedere agli insegnamenti qualsiasi fascia d’età.

I programmi del vecchio ordinamento hanno avuto validità fino all’entrata in vigore della riforma. Le critiche ai programmi dei conservatori divennero più pesanti dalla fine degli anni Cinquanta, sia per motivi musicali (la produzione delle avanguardie artistiche), sia per il bisogno di allargare la base “culturale” degli studi. Un processo iniziato negli anni Sessanta che giunge a conclusione solo con una legge del 1999, rivelando una marginalità dell’arte e della musica che non era, forse, monopolio del solo Gentile.

La didattica oggi

Il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli è frequentato da circa mille studenti, iscritti in maggioranza ai corsi di alta formazione musicale. Il vecchio ordinamento, a esaurimento, è frequentato da poco meno di trecento studenti, il cui titolo avrà valore diverso (laurea di primo livello) da chi ha terminato entro il 2012 (laurea di secondo livello).

L’ordinamento dei corsi di studio per il diploma di primo livello è organizzato in dipartimenti: strumenti ad arco e a corda; a fiato; a tastiera e percussione; nuove tecnologie e linguaggi musicali (che comprende anche la scuola di jazz, di recente istituzione, e la scuola di musica elettronica, la cui prima cattedra fu istituita nel 1965 a Firenze); canto e teatro musicale; teoria e analisi, composizione e direzione; didattica della musica e dello strumento. Il conservatorio attiva anche tre master, tra primo e secondo livello, dedicati all’amministrazione e alla tutela dei beni culturali musicali.

L’offerta didattica si è ispessita nel tempo, con sviluppi ancora in via di definizione, ridisegnata dall’attuale configurazione dell’oggetto musicale, che ha lasciato alle spalle il suo contrassegno colto per mostrarne altri di matrice più popolare. La presenza dei corsi di jazz e di popular music va in questa direzione, con un occhio alla situazione del mercato nel quale la musica viene immessa; non a caso, nella presentazione di queste scuole, gli obiettivi formativi e le prospettive occupazionali sono coniugate.

Con la riforma, le istituzioni sono dotate di personalità giuridica e godono di autonomia statutaria, didattica, scientifica, amministrativa. Quanto alla didattica, a differenza di un tempo, quando il vecchio ordinamento era uniforme in tutto lo stato, ora l’allievo ha esami diversi in ogni conservatorio (dal ministero giunge un’esile traccia di materie fondamentali, poco chiara pur nella sua semplicità); i programmi e i titoli rilasciati sono validi solo in quello specifico istituto musicale e diventa così più dubbia la strada del riconoscimento crediti-attività in caso di trasferimento. Le implicazioni amministrative si riscontrano fin dal contributo di ammissione, oltre che nella libertà lasciata ai conservatori di attivare sinergie con enti privati.

La formazione nei conservatori è diventata più lunga e segmentata rispetto al passato. Vi si può accedere solo se in possesso di un diploma di scuola superiore. Certo, la riforma Gelmini prevede l’attivazione dei licei musicali e coreutici dal 2014-15, ad anticipare gli studi in conservatorio, con un crescente orientamento alla specializzazione, subito dopo le medie. Si aggiungano poi triennio e biennio, senza contare il biennio abilitante. A scandire il percorso sono vari traguardi, che spesso si ripetono quanto a programma. Il contributo per la frequenza viene determinato in base alla fascia di appartenenza ricavata dal reddito, oltre alle sempre presenti tasse governative. Una spesa che oscilla tra i 500 e i 1.400 euro, nel caso di reddito superiore ai 28 mila euro annui.

Il corpo docente è rimasto invariato, pur cambiando in molti casi la sua funzione didattica; fa capolino ogni tanto qualche docente assunto a contratto (dunque precario). In un anno si sostengono più esami che in tutto il vecchio ordinamento. Questo significa che il peso degli esami è cambiato: i ritmi della produzione sono diventati più serrati, segnando lo slittamento da una pratica artigiana a un accumulo compulsivo di crediti. Senza tener conto che l’attenzione dedicata allo strumento può scemare in funzione delle altre materie cui prestare attenzione per fronteggiare il ricco piano di studi (c’è obbligo di frequenza, con firma, in almeno l’80% delle ore di lezione).

Studiare al San Pietro a Majella oggi richiede un bel po’ di pazienza, oltre che impegno e dedizione: da un lato la presenza di una struttura storica ma poco curata nel tempo, dall’altro una difficile rincorsa a tempi ben scanditi dai crediti, eppure poco organizzati nella quotidianità, limitano la validità della didattica. La politica culturale del conservatorio sembra rivolta a una musealizzazione della propria identità, incapace di dialogare con le trasformazioni che in anni recenti hanno ridefinito l’oggetto musicale. Per esempio, perché dedicare un museo a Riccardo Muti e non attivare invece un canale Youtube sul quale caricare registrazioni da mettere a disposizione di tutti?

C’è da chiedersi se questo decisivo aggiornamento didattico non riveli un cambio d’identità nella funzione sociale del musicista, non più manovale di uno strumento, ma “libero” ricercatore musicale. Certo è che il conservatorio occupa una posizione da non trascurare nell’attuale mercato della formazione, non solo musicale.