Il potere camorrista nell’economia legale e illegale

di Carolina Castellano

In città, la violenza è il segnale certamente più manifesto e immediato della presenza di gruppi criminali. Per tutto il ventennio 1985-2006, nella triste classifica del tasso di omicidi volontari Napoli ha oscillato (insieme a Catania e Palermo) tra il primo e il secondo posto, anche negli anni in cui il numero complessivo degli omicidi volontari diminuiva in tutta Italia[1]. Questo dato si riflette anche su quello regionale, visto che la Campania occupa alternativamente il secondo o terzo posto nel ventennio considerato, ma il capoluogo ha sempre mantenuto uno scarto rispetto al resto della regione, che anzi è cresciuto in tutto il ventennio considerato[2].

Nei decenni, la morfologia socio-economica della regione si è trasformata: dagli anni Settanta in poi le famiglie criminali attive nel controllo violento dei mercati (soprattutto rurali), nell’usura e nel contrabbando, si sono giovate della tolleranza istituzionale riservata al grande affare del contrabbando, propulsore economico che ha consentito ai clan campani non solo la crescita del potere militare ma anche la connessione con le cosche mafiose. I gruppi criminali così cresciuti nella cintura metropolitana, talvolta federatisi secondo assetti mafiosi, sono diventati fin dagli anni Settanta interlocutori privilegiati degli esponenti politici[3]. Con le trasformazioni del paesaggio economico prodotte dagli interventi infrastrutturali seguiti al terremoto del 1980, i poteri illegali hanno potuto dirigersi verso i comparti in crescita dell’economia legale: la piccola imprenditoria della provincia casertana, l’edilizia, il polo commerciale dello snodo nolano-aversano[4]. Negli anni Novanta, quando la costruzione delle nuove strade di scorrimento e gli interventi di edilizia popolare post-terremoto hanno accresciuto l’importanza economica dell’area mediana tra la zona a nord di Napoli, l’area nolano-aversana e il basso casertano, si è modificata anche la geografia sociale dell’area metropolitana e delle periferie. Un’analisi ravvicinata degli omicidi di camorra nello scorso decennio, ha mostrato l’alta incidenza del conflitto camorrista nell’area metropolitana: da Ercolano, trafficatissima centrale del narcotraffico, alla cintura di comuni tra Nola e Aversa.

La camorra come marchio

Se la pressione criminale è aumentata in zone che rappresentano centrali importanti dei mercati illegali, non meno rilevante è la presenza di gruppi criminali in comparti di primaria importanza nell’economia cittadina, quelli della produzione e smercio di prodotti tessili e di abbigliamento, a cui si è associata l’industria del falso. L’imprenditoria camorrista, tradizionalmente radicata nel settore commerciale, ha saputo costruire filiere lunghe nella produzione di abbigliamento e di falsi, controllando un intero mercato ai confini tra legale e illegale, dalla produzione locale di piccola scala all’esportazione su scala europea (soprattutto sui mercati dell’est riapertisi dopo l’89) e transoceanica.

Il primato violento che Napoli si è purtroppo guadagnata, diventa cifra distintiva anche nelle frequenti proiezioni di questi gruppi nelle regioni economicamente più dinamiche del centro e del nord Italia. Qui l’espansione mafiosa, favorita dal negazionismo dominante nel discorso pubblico rispetto alla presenza di gruppi criminali, si avvale di una vasta rete di connivenze di tecnici e professionisti, politici e amministratori locali, in maniera non diversa da quanto accade nei territori di tradizionale radicamento mafioso. Ulteriore fattore di forza nella penetrazione camorrista è la fragilità del tessuto imprenditoriale, tanto più esposto all’illecito in una fase critica dell’economia. È significativo, a questo proposito, il caso della società Aspide, noto all’opinione pubblica grazie alle inchieste televisive che hanno popolarizzato la vicenda. La società, composta da un nucleo di origine campana e da un socio locale, aveva avviato in Veneto, con il consistente sostegno di una rete di professionisti (commercialisti, notai), un’attività di consulenza e finanziamento con cui copriva gli illeciti fiscali e finanziari per medi e piccoli imprenditori; quest’offerta ha incontrato un’ampia domanda, ma in molti casi i soggetti che si sono rivolti ad Aspide hanno visto letteralmente vampirizzare la propria attività, attraverso prestiti usurai, fino a doverla cedere ai campani. Il gruppo, oltre a utilizzare diffusamente la violenza per imporre le proprie condizioni, ha millantato i propri addentellati camorristi (dato non confermato in sede processuale) a scopi intimidatori: per imporre agli imprenditori l’esazione degli interessi, i soci di Aspide presentavano come “credenziale” criminale l’appartenenza alla federazione casertana dei Casalesi, e proponevano il “viaggio a Scampia”, periferia napoletana, come metodo di intimidazione per i creditori[5].

Il marchio della violenza, risorsa tradizionale dei poteri mafiosi, diventa così un vero e proprio brand commerciale associato ai gruppi di camorra, anche grazie alla popolarizzazione mediatica degli scenari criminali napoletani, in cui i confini della città sono sempre più dissolti, tra lo sfondo periferico di Napoli-Scampia, l’area metropolitana e la provincia “intermedia”, nel casertano.

Il reticolo dei clan

La quota maggiore di omicidi di matrice mafiosa commessi nell’ultimo trentennio viene attribuita ai clan campani. Il carattere “arcaico” di questa tendenza al conflitto violento (ad altissima tensione quando tocca risorse di primaria importanza come il narcotraffico) è il dato distintivo della camorra, che gli inquirenti definiscono “sanguinaria, costituita da bande criminali che rifiutano di assoggettarsi a un controllo verticistico[6]”. Ma questa galassia numerosa (nel 2014 sono stati censiti circa 100 clan campani[7]) non si presenta come un indistinto aggregato di gang urbane, bensì è a sua volta stratificata in raggruppamenti di diversa caratura criminale e capacità imprenditoriale, tra essi legati da rapporti di sudditanza, alleanze, accordi di cartello.

Al livello superiore troviamo i clan più radicati e potenti, alcuni dei quali hanno costruito il proprio dominio territoriale nella seconda metà del Novecento, nell’età d’oro del contrabbando degli anni Settanta: sono i Mazzarella di San Giovanni a Teduccio e Santa Lucia, legati per via parentale agli Zaza (ora Zazo) di Fuorigrotta, la dinastia di contrabbandieri il cui capostipite Michele era stato negli anni Settanta “legalizzato” da Cosa Nostra; i Misso e i Giuliano di Forcella, famiglia questa che ha cominciato la propria carriera criminale con il racket sul trasporto cittadino nella prima metà del Novecento (le carrozze[8]); nella periferia settentrionale di Napoli i Licciardi e i Di Lauro, dei rioni di Masseria Cardone a Secondigliano e di Scampia; i primi provengono dai circuiti commerciali ai margini della legalità, quelli dei magliari, il medesimo comparto cui apparteneva Aniello La Monica, nel cui clan si era formato Paolo Di Lauro[9]; i Contini, nell’area periferica di Poggioreale-San Giovanniello, e ancora i Sarno di Ponticelli, circondati, prima della dissoluzione a fine anni Duemila, da una vasta rete di clan minori nell’area vesuviana, a cui essi garantivano protezione militare ricevendone in cambio parte dei ricavi illeciti[10].

Questi clan, costituiti da gruppi famigliari molto vasti, talvolta attraversati da tensioni e scissioni interne, costituiscono una compagine reticolare. Frequenti sono i legami tra le famiglie del sistema camorrista, prodotti anche da un’accorta politica matrimoniale: il boss della Sanità Giuseppe Misso è legato alla famiglia Sarno, a cui apparteneva sua moglie Assunta Sarno; gli otto fratelli Mazzarella sono nipoti per parte di madre di Michele Zaza; uno dei figli di Vincenzo Mazzarella, Michele, ha sposato Marianna Giuliano, figlia di Luigi, detto Lovigino; Edoardo Contini comincia la sua carriera criminale sposando Maria Aieta, sorella di Francesco Mallardo di Giugliano, e così via. Nello strato inferiore troviamo gruppi dediti a traffici illegali (dal lotto clandestino al narcotraffico), e ancora clan subalterni, che amministrano su territori circoscritti una miriade di attività, principalmente le estorsioni e lo spaccio al minuto.

Rapporti di alleanza e sinergie operative, o di tutela/vassallaggio, collegano i diversi livelli, sia in senso orizzontale che verticale: nel quartiere Barra, per esempio, i due clan, Cuccaro e Aprea, arrivano a un accordo che li rafforza nella fase di faida degli anni centrali del Duemila, suddividendosi le attività criminali sul territorio. Il clan Zazo (Zaza) di Fuorigrotta, specializzato nel narcotraffico, si trova invece sotto la tutela dei Mazzarella, a essi legati, come abbiamo visto, per via parentale. Nei primi anni Duemila si registrano a Fuorigrotta diverse incursioni di moto di grossa cilindrata, tutte dello stesso tipo, inviate dai Mazzarella per scongiurare la minaccia di incursione di clan rivali; episodi di questo tipo si svolgono a San Giovanni a Teduccio, minacciata dalle spinte espansive del clan Rinaldi, o ancora nel comune di Marigliano, dove in quegli anni i Mazzarella cercano di insediare un proprio gruppo satellite: la ronda è concepita come dimostrazione di dominio a beneficio non solo dei clan rivali, ma anche dei comuni cittadini[11]. È anche questo il segno di una latente minaccia militare che, sebbene prodotta dall’estrema conflittualità di reti criminali instabili, è ben lontana dal segnare il limite tra quelle reti e il resto della cittadinanza, ma anzi costituisce una presenza manifesta e pervasiva[12].

La pressione che questi gruppi esercitano sulla cittadinanza è direttamente proporzionale al livello di conflittualità interno. Consideriamo il business per antonomasia dei gruppi mafiosi, quello delle estorsioni. Si tratta dell’unica attività illecita esercitata in esclusiva dai gruppi mafiosi, non solo in Campania: qui come altrove il capitale movimentato dal mercato delle estorsioni rientra interamente nella gestione dei clan, a differenza di quello movimentato dall’usura[13]. La pressione estorsiva è enormemente diffusa (secondo alcuni collaboratori di giustizia nessun quartiere della città ne è immune, dato parzialmente confermato dal rapporto SOS Impresa 2009). A operare in questo campo, non sono soltanto uomini ma anche donne: estorsioni compiute da donne si sono registrate a Marigliano; e sono le donne del gruppo Contini che si occupano di esigere con la violenza il credito usuraio dalle vittime dello stesso sesso[14]. Le faide non diminuiscono ma accentuano la pressione del racket; nelle centralissime strade dei Quartieri Spagnoli, tra il 2006 e il 2007, lo scontro tra i due gruppi dei Russo e dei Di Biasi si è accompagnato alla crescita del mercato delle estorsioni, vero oggetto del contendere tra i due gruppi[15].

Controllo del territorio e proiezione all’esterno

All’attività estorsiva, non solo sul commercio, ma anche sul mercato del lavoro (il pagamento per l’inserimento nelle graduatorie per l’inserimento al lavoro, o addirittura sull’esposizione dei manifesti elettorali[16]) e sugli appalti, è notoriamente commisurata la capacità di controllo del territorio. Di conseguenza, i capi non rinunciano alle estorsioni, anche di piccolo calibro, nemmeno nelle fasi di espansione internazionale dei propri traffici.

Consideriamo le vicende di un clan di grande potenza, i Polverino dei Camaldoli, originatosi dal gruppo di fuoco dei Nuvoletta. Questo gruppo, muovendosi in un’area di confine tra i quartieri collinari della città e l’area flegrea sottostante ai Camaldoli, tra gli anni Ottanta e Novanta ha costruito una compagine imprenditoriale complessa con enormi interessi nell’edilizia (estorsioni, industria del cemento “ereditata” dai Nuvoletta e cresciuta grazie alle imposizioni di forniture) e nell’agroalimentare (panificazione e macelleria, monopolizzate nella zona di Marano grazie alle imposizioni di forniture e agli appalti ottenuti in grandi ospedali napoletani). Grazie alle collusione nell’amministrazione e nell’imprenditoria locale, i Polverino si sono inoltre imposti sul mercato edilizio nell’attiguo comune di Quarto, mentre si espandevano commercialmente nei quartieri collinari di Napoli (il Vomero alto)[17]. All’inizio degli anni Novanta, il capoclan ha quindi investito la propria potenza economica nel narcotraffico, affidandosi alla intraprendenza di un broker in grado di stabilire un contatto diretto con i produttori-esportatori di hashish marocchini, che lo ha condotto a monopolizzarne l’importazione nel sud Italia. In Spagna, i Polverino hanno avviato una vasta attività di riciclaggio investendo ancora una volta nell’edilizia; ed è qui che, negli anni Duemila, si è trasferito il capoclan in latitanza. Ma negli stessi anni in cui diversi elementi di spicco del clan si dirigono verso la nuova “colonia” spagnola, il mercato delle estorsioni nel feudo di Quarto continua a fiorire; qui un affiliato di rango, che grazie alle sue relazioni è stato il primo avamposto dell’infiltrazione camorrista nell’amministrazione locale, si preoccupa di incaricare il nipote della riscossione delle tangenti (di cinquanta euro) sulle bancarelle natalizie di fuochi d’artificio. Il valore economico dell’estorsione è nullo, se comparato all’enorme reddito accumulato dal clan in settori economici legali (l’edilizia) e illegali (il narcotraffico, l’usura e le estorsioni). Ma l’estorsione è il segno della presa sul territorio che non deve mai mancare, tanto più in un momento di fibrillazione degli equilibri interni al gruppo, prodotta dalla lontananza del capo.

Al volto arcaico e violento di questi gruppi si associano competenze imprenditoriali raffinate. Abbiamo considerato il caso della proiezione internazionale della filiera produttivo-commerciale dei Licciardi. Torniamo all’area di Secondigliano. Qui, tra gli anni Ottanta e Novanta, Paolo Di Lauro, liberandosi con un omicidio efferato del boss precedente, Aniello La Monica, ha promosso un’impresa di importazione e mercificazione delle droghe (principalmente cocaina) diversificando la propria strategia. Egli si è infatti imposto come grossista- importatore diretto, grazie all’azione di un broker intraprendente come Raffele Amato, che negli anni ha acquisito una padronanza della triangolazione Colombia-Marocco-Spagna ed è stato in grado di importare quantitativi notevoli di cocaina e hashish a prezzi più che competitivi, grazie al contatto diretto con i produttori. Di Lauro gestisce direttamente la vendita al dettaglio (nelle proprie piazze) e fa da locatore a quota fissa nelle piazze messe in affitto, dove, in ogni caso, impone le proprie forniture[18]. È questo un sistema che promuove la crescita dei profitti dei capi piazza, perché rinuncia a imporre una tassa sul venduto (come invece facevano i Giuliano sulle piazze di spaccio a Forcella, prima di essere soppiantati dai Mazzarella nei primi anni del Duemila), ma inaugura una sorta di franchising delle vendite. Allo stesso tempo, grazie al meccanismo delle “puntate” sui carichi di narcotici per finanziare i viaggi di droga, consente anche ad elementi apicali di altri clan di moltiplicare i propri capitali; il clan, su richiesta dei piazzisti oppure di propria iniziativa, attraverso le puntate raccoglie i capitali necessari a finanziare i viaggi di droga con un profitto molto alto (50%), pari al rischio corso da chi punta.

Il profilo predatorio, che i clan camorristi mostrano con più evidenza sul territorio metropolitano, non esclude, come si è visto, l’attitudine imprenditoriale. La violenza entra nelle modalità operative sui mercati, così come nelle relazioni interne ai clan (l’eliminazione di avversari o di sodali diventanti minacciosi perché cresciuti in potenza, o perché considerati infidi) e nei rapporti che si stabiliscono con la vasta schiera di fiduciari (imprenditori collusi e disponibili a operazioni di riciclaggio). Fattore imprescindibile dell’affermazione dei gruppi camorristi resta tuttavia il vasto capitale sociale di cui si circondano, grazie a pratiche corruttive e alla disponibilità della politica locale.

[1] Ministero degli interni, Rapporto sulla criminalità in Italia. Analisi. Prevenzione. Contrasto, Roma, 2006, pp. 113-114. www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/14/0900_rapporto_criminalita.pdf.

[2] La distanza tra il tasso di omicidi commessi a Napoli e nel restante territorio regionale si è ampliata con gli anni: nel 1985 Napoli aveva un tasso di omicidi di 4,4 su mille abitanti e la Campania di 3,7; nel 2005 il dato registrato a Napoli è di 3,8 e in Campania di 2,2. Ibidem, p. 116.

[3] Sales I., La camorra, le camorre, Editori Riuniti, Roma, 1993; Barbagallo F., Il potere della camorra (1973-1998), Einaudi, Torino, 1999.

[4] Sommella R., “La trasformazione dello spazio napoletano: poteri illegali e territorio”, in Gribaudi G. (a cura di), Traffici criminali. Camorra, mafie e reti internazionali dell’illegalità, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, pp. 355-374. L’analisi di breve periodo (2001-2006) mostra una concentrazione di omicidi di camorra fuori dal centro cittadino, nella cintura ampia che abbraccia sia le aree litoranee vesuviane e del basso casertano, che la zona nolana. Sull’affermazione della camorra “mafizzata” nella provincia napoletana, e sulla sua spiccata attitudine imprenditoriale, cfr. Sales I., cit.

[5] Belloni G. e Vesco A., “Imprenditori e camorristi in Veneto. Il successo del logo casalese”, in Sciarrone R. (a cura di), Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali, Donzelli, 2014, pp. 333-361. Il fondatore della società e principale imputato, Mario Crisci, ha dichiarato ai giudici: “Io ritenevo che la migliore arma non fosse esibire le pistole, ma sfruttare la fantasia, l’immaginazione del debitore su quello che poteva procurargli il suo inadempimento”; tra le strategie intimidatorie quindi c’è il dono di mozzarelle casertane e il viaggio a Scampia. “Crisci, per incutere timore ai creditori, li portava al quartiere le Vele di Scampia”, ivi, pp. 346 e 347.

[6] Così si esprime la Relazione della Direzione distrettuale antimafia, primo semestre 2012, p. 130, http://www1.interno.gov.it/dip_ps/dia/semestrali/sem/2014/2sem2014.pdf. Per un’analisi del ruolo della violenza nella struttura organizzativa delle mafie, si veda da ultimo Catino M., “How do Mafias organize?”, in European Journal of Sociology, vol. 55, 02/08/2014, p. 201. Nel trentennio 1983-2012, i 3.295 omicidi di matrice camorrista rappresentano il 49% dell’intero numero dei 6.787 omicidi mafiosi in Italia; la media annuale di uccisioni attribuite ai clan campani è di 110, con punte ricorrenti, coincidenti con le maggiori guerre di camorra. Questi dati sono ancora attuali, come mostra il Secondo Rapporto Semestrale della Direzione investigativa antimafia per il 2014, pp. 12-13.

[7] Direzione investigativa antimafia, secondo semestre 2014, p. 95, http://www1.interno.gov.it/dip_ps/dia/semestrali/sem/2014/2sem2014.pdf. Sulla stratificazione criminale delle camorre campane cfr. Brancaccio L., “Guerre di camorra: i clan napoletani tra faide e scissioni”, in Gribaudi, 2009, cit., pp. 65-89.

[8] Di Fiore G., La camorra e le sue storie. La criminalità organizzata a Napoli dalle origini alle ultime «guerre», Utet, Torino, 2005; Gribaudi G., “Clan camorristi a Napoli: radicamento locale e traffici internazionali”, in Gribaudi, 2009, cit., pp. 187-240.

[9] I Licciardi sono tornati alla propria vocazione mercantile investendo i proventi criminali nel mercato del falso: cfr. Brancaccio L., “Magliari, imprenditori e camorristi: il mercato del falso a Napoli”, in Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Donzelli, Roma, 2011, pp. 374-419; i Di Lauro si sono criminalmente affermati negli anni Ottanta investendo, sotto l’ala protettiva della centrale mafiosa dei Nuvoletta a Marano, nel mercato in crescita della cocaina: Di Meo S., L’impero della camorra. Vita violenta del boss Paolo Di Lauro, Newton Compton, Roma, 2008.

[10] Direzione nazionale antimafia, Elaborato di sintesi sulle principali forme di criminalità mafiosa di origine italiana e sulle mafie straniere. Camorra, Relazione annuale dicembre 2011, p. 81.

[11] Cfr. Tribunale di Napoli, sezione del giudice per le indagini preliminari, n. 21341/05 r.g.n.r., 13/07/2006. L’inchiesta, partita dalla denuncia per estorsione da parte di due imprenditori di Marigliano, racconta il tentativo di colonizzazione del comune di Marigliano da parte dei Mazzarella attraverso un gruppo satellite insediato, fin dagli anni Novanta, nel rione di edilizia pubblica di Pontecitra. È questo uno degli esempi più recenti dell’utilizzo delle aree residenziali pubbliche edificate dopo il terremoto del 1980 nella cintura metropolitana ai fini di espansione criminale.

[12] Queste le conclusioni del procuratore aggiunto Beatrice F., “Gli usi della violenza. Alle radici degli omicidi di camorra”, in Brancaccio L. e Castellano C. (a cura di), Affari di camorra. Famiglie, imprenditori e gruppi criminali, Donzelli, Roma, 2015, pp. 275-293.

[13] Le mani della criminalità sulle imprese, Rapporto SOS Impresa, XII Edizione, 2009, pp. 73 ss. www.sosimpresa.it/userFiles/File/Documenti4/Rapporto_2009.pdf.

[14] Gribaudi G., “Violenza e affari. I clan napoletani tra dimensione locale e proiezione internazionale”, in Brancaccio L. e Castellano C., 2015, cit., pp. 45-86. Sul consistente ruolo giocato dalla componente femminile dei clan camorristi, cfr. Marmo M., “La rima amore/onore di Pupetta Maresca. Una primadonna nella camorra degli anni Cinquanta”, e Gribaudi G., “Donne di camorra e identità di genere”, entrambi in Gribaudi G. e Marmo M., “Donne di mafia”, Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali, n. 67, 2010, rispettivamente pp. 113-144 e 145-154.

[15] Direzione nazionale antimafia, Elaborato di sintesi sulle principali forme di criminalità mafiosa di origine italiana e sulle mafie straniere. Camorra, Relazione annuale dicembre 2011, cit. p. 77.

[16] Le vicende dei clan dei Quartieri Spagnoli vengono ricostruite da Gribaudi G., “Clan camorristi a Napoli: radicamento locale e traffici internazionali”, in Gribaudi G., 2009, cit. pp. 187-240.

[17] Ho analizzato il caso in Castellano C., “Il pane e la droga. La camorra di provincia tra mercati legali e illegali”, in Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali, nn. 73-74, 2012, pp. 151-172.

[18] Di Meo S., 2008, cit., pp. 94-95.