Beni comuni urbani. L’esperienza di Acqua Bene Comune

di Sergio Marotta (marzo 2017)

Napoli è l’unica grande città italiana che, sulla scia degli esiti dei referendum del 12 e 13 giugno 2011, ha trasformato la propria azienda per la fornitura dell’acqua da società commerciale, Arin S.p.A., in azienda speciale, Abc – Acqua bene comune, modificando la sua forma giuridica da società per azioni di diritto privato a ente di diritto pubblico.

Ciò si è potuto realizzare perché l’amministrazione cittadina ha posto al centro dell’agenda politica il tema dei beni comuni intesi, secondo la definizione che ne diede la Commissione Rodotà nel 2008, come “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona” e che “devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future”.

Sulla base di questo indirizzo, l’acqua è stata considerata come risorsa collettiva da gestire al di fuori della logica del profitto e delle leggi del mercato. A tal fine, oltre alla trasformazione della forma giuridica, è stato introdotto un principio di governo partecipato coinvolgendo i movimenti ambientalisti e i cittadini utenti chiamati a superare così la condizione di semplici consumatori.

La realizzazione di una gestione pubblica e partecipata del servizio idrico integrato è in una fase iniziale e ancora non s’intravede quale sarà l’esito finale dei processi in corso.

La cronistoria

Nella prima metà degli anni Novanta la legge 5 gennaio 1994, n. 36, meglio nota come legge Galli dal nome del suo proponente, creò il cosiddetto servizio idrico integrato mettendo insieme i servizi di captazione, adduzione e distribuzione di acqua a usi civili, di fognatura e di depurazione delle acque reflue. Un servizio la cui organizzazione andava pianificata sulla base dei bacini idrografici, cioè della presenza sul territorio delle acque e delle fonti nonché delle infrastrutture artificiali realizzate per il loro utilizzo.

La legge di riforma fu salutata come un’innovazione necessaria dalla maggioranza delle forze politiche. In realtà, la legge Galli importava nel nostro ordinamento il modello anglosassone elaborato dal governo Thatcher nel 1989 per la Gran Bretagna che prevedeva l’integrazione del ciclo della fornitura dell’acqua e dei servizi di fognatura e depurazione nelle mani di un unico operatore, identificato con un soggetto imprenditoriale privato che divenisse titolare di una concessione comprendente l’intera estensione di un bacino idrografico di riferimento.

La legge Galli organizzava il servizio sulla base di ambiti territoriali ottimali (ATO) corrispondenti ai diversi bacini idrografici. Era previsto che tali ambiti fossero governati da un’autorità di nuova istituzione composta da tutti gli enti locali presenti sul territorio del bacino e individuata da ciascuna regione con apposita legge.

Quanto alla proprietà formale della risorsa, non è superfluo ricordare che in Italia l’acqua è pubblica e che “tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio dello Stato” (d. lgs. n. 152/2006, art. 144, comma 1). Di proprietà pubblica sono anche gli acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche che fanno parte del demanio e sono inalienabili se non con i criteri dettati dalla normativa vigente. Dunque ciò che interessa non è la proprietà pubblica della risorsa ma la gestione del ciclo delle acque, cioè il suo effettivo utilizzo. L’acqua, in sostanza, “appartiene” a chi ne ha la effettiva disponibilità e quindi a chi la gestisce, occupandosi della realizzazione e manutenzione delle infrastrutture e dell’amministrazione delle risorse finanziarie.

Nel 1994 gli enti locali, province e comuni, che dovevano dare vita alle nuove autorità di gestione degli ATO potevano utilizzare le modalità previste dalla prima importante legge di riforma delle autonomie locali, la 142/90. Tale legge lasciava ampia libertà di scelta sulle modalità di gestione dei servizi pubblici locali e, quindi, anche del servizio idrico integrato: gli ATO potevano provvedere alla “gestione diretta” mediante aziende speciali (autoproduzione); all’esternalizzazione del servizio affidandolo in concessione a un soggetto esterno mediante procedura di evidenza pubblica (outsourcing); oppure avrebbero potuto utilizzare lo strumento della società mista pubblico/privata, purché a maggioranza pubblica.

Ciò che rese più complessa la riorganizzazione dei servizi idrici, fu la circostanza che nello stesso periodo andava realizzandosi in Italia un profondo processo di riforma delle amministrazioni pubbliche locali. In particolare, la seconda delle cosiddette leggi Bassanini (l. 15 maggio 1997, n. 127) incentivava la trasformazione delle aziende speciali, enti di diritto pubblico che svolgevano attività d’impresa, in società per azioni, attraverso una procedura semplificata e con un regime fiscale agevolato. Insomma, si andava lentamente superando il sistema della municipalizzazione dei servizi che era iniziato con la legge Giolitti del 1903 e si dava spazio alle società di capitali come strumento privilegiato anche per la gestione dei servizi pubblici locali.

Se il Testo unico sull’ordinamento degli enti locali del 2000 (d. lgs. 267/2000) ancora prevedeva sia la possibilità di gestione diretta che la scelta di esternalizzare, la vera svolta fu segnata dall’art. 35 della finanziaria per l’anno 2002 (l. 28 dicembre 2001, n. 448), che obbligava gli enti locali, compresi i nuovi ambiti territoriali ottimali, a rivolgersi al mercato per la scelta del gestore del servizio idrico integrato. L’art. 35, infatti, cancellava la gestione diretta attraverso aziende speciali per i servizi a rilevanza economica, quelli la cui organizzazione aveva carattere industriale, e prevedeva inoltre l’obbligo di trasformazione delle aziende speciali esistenti e dei consorzi tra enti locali in società per azioni. Prevedeva inoltre che, per i servizi idrici, le autorità d’ambito territoriale ottimale potessero affidare il servizio a società di capitali partecipate unicamente da enti locali, a condizione che entro due anni avessero ceduto il quaranta per cento delle quote ai privati.

Ma poco più di un anno dopo, con il d. l. n. 269/03 (convertito nella legge n. 326/03), il legislatore dovette fare marcia indietro e reintrodurre, accanto alla gara pubblica, l’affidamento del servizio a società mista con il socio privato selezionato con procedura di evidenza pubblica e l’affidamento diretto senza gara a società interamente pubblica (cd. in house providing).

Il nuovo Codice dell’ambiente del 2006 (d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) continuò a prevedere l’affidamento diretto senza gara a società di capitali interamente pubbliche, purché fosse giustificato da obiettive ragioni tecniche o economiche, continuando a mostrare una preferenza per la concessione a soggetti privati o per una gestione pubblica mediante società di capitali di diritto privato. Insomma, l’azienda speciale, cioè un soggetto di diritto pubblico che provvedesse alla gestione di un servizio di natura industriale, veniva messa in un cassetto e riservata ai soli servizi privi di rilevanza economica. Ma ciò che scatenò una vera e propria campagna di resistenza civile da parte dei movimenti in difesa dell’acqua pubblica – che nel frattempo erano sorti a livello locale e si erano dati una struttura di coordinamento nazionale – fu, nel 2008, il cosiddetto decreto Ronchi che prese il nome dal ministro per le politiche europee del IV governo Berlusconi.

L’art. 23-bis del decreto Ronchi (d. l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2008, n. 133, nel testo modificato dall’art. 15, d. l. 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla l. 20 novembre 2009, n. 166) tornava alla primigenia impostazione dell’art. 35 della finanziaria per il 2002 e sceglieva decisamente l’outsourcing come metodo di gestione dei servizi pubblici locali, compresi i servizi idrici, prevedendo due modalità ordinarie di affidamento del servizio: il primo mediante gara aperta a imprenditori e società private; il secondo attraverso società miste pubblico/private a condizione che la selezione del socio privato avvenisse mediante gara e che i soci privati avessero una quota non inferiore al quaranta per cento.

Il decreto Ronchi prevedeva ancora l’ipotesi di affidamento diretto senza gara a società interamente pubbliche, ma solo come ipotesi derogatoria e solo “per situazioni eccezionali” (art. 23-bis, comma 3). Da allora si scatenò l’azione dei movimenti riuniti nel Forum italiano dei movimenti per l’acqua (d’ora innanzi Forum), soprattutto dopo che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 325 del 2010, sancì la costituzionalità dell’art. 23-bis del decreto Ronchi, ravvisando nell’ordinamento italiano un “divieto di gestione diretta” dei servizi pubblici locali mediante aziende di diritto pubblico (aziende speciali)[1].

A questo punto non restava al Forum che percorrere la via del referendum abrogativo. In pochi mesi furono raccolte oltre un milione e quattrocentomila firme, quasi tre volte quelle richieste dall’art. 75 della Costituzione, per chiedere l’abrogazione dell’art. 23-bis del decreto Ronchi e la cancellazione dal calcolo delle tariffe idriche del criterio dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito previsto dall’art. 154 del Codice dell’ambiente.

L’intento politico del Forum e degli altri comitati promotori era quello di riportare il settore dell’acqua fuori dal mercato reintroducendo la possibilità di forme di gestione diretta da parte degli enti locali. I referendum del 12 e 13 giugno 2011 videro un’ampia partecipazione e un’amplissima maggioranza, superiore al novantacinque per cento dei votanti, che si espresse a favore dell’abrogazione della legislazione allora vigente nel settore dei servizi pubblici locali.

La prima reazione del governo dell’epoca fu quella di ripresentare immediatamente una disciplina che riproducesse quella abrogata mediante referendum. Ma tale norma, l’art. 4, d. l. n. 138/2011 (convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011), è stata sonoramente bocciata dalla Corte costituzionale perché violava palesemente la volontà popolare espressa attraverso la via referendaria[2]. È proprio a partire dal mese di giugno del 2011 che la storia dell’acqua pubblica in Italia s’intreccia con l’esperienza dell’amministrazione comunale di Napoli formata a seguito dell’elezione a sindaco dell’ex magistrato ed eurodeputato Luigi de Magistris.

Un’esperienza napoletana: Acqua Bene Comune

A pochi giorni dal referendum, con la delibera n. 740 del 16 giugno 2011, la nuova amministrazione comunale napoletana stabilì gli indirizzi generali per la trasformazione dell’Arin, Azienda risorse idriche napoletane, società per azioni a totale capitale pubblico, in azienda speciale.

Qualche settimana dopo, su proposta della giunta, il consiglio comunale di Napoli con delibera n. 24 del 22 settembre 2011 modificò l’art. 3 dello statuto dell’azienda con l’aggiunta del seguente comma: “Il comune di Napoli, anche al fine di tutelare le generazioni future, garantisce il pieno riconoscimento dei beni comuni in quanto funzionali all’esercizio di diritti fondamentali della persona nel suo contesto ecologico”. L’acqua, in quanto bene comune per eccellenza, ebbe un trattamento speciale.

La Corte costituzionale, nella sentenza che ammetteva il referendum abrogativo dell’art. 23-bis del decreto Ronchi, aveva stabilito che l’abrogazione della norma avrebbe comportato “l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum)”[3].

Dopo il referendum si erano create le condizioni per le amministrazioni locali di provvedere all’autoproduzione dei servizi pubblici attraverso aziende speciali, una forma di gestione finalizzata al pareggio di bilancio e diversa dalla cosiddetta gestione in house, realizzata attraverso società per azioni a totale capitale pubblico e finalizzata alla realizzazione di utili d’impresa. Quella dell’amministrazione de Magistris fu una scelta forte perché se il messaggio politico era quello di tenere la gestione dell’acqua al di fuori del mercato, dal punto di vista giuridico si trattava di affrontare problematiche complesse di diritto positivo sia interno che dell’Unione europea.

Il Testo unico sugli enti locali (d. lgs. 267 del 2000) prevedeva, infatti, la trasformazione delle aziende speciali in società per azioni, ma non quella inversa di società per azioni in aziende speciali, non espressamente prevista neanche dal codice civile italiano nonostante la riforma del 2008 avesse ampliato le possibilità di trasformazione della forma giuridica delle società commerciali.

Tutte le difficoltà tecnico-giuridiche furono superate e il consiglio comunale di Napoli dopo avere approvato una prima delibera, la 32 del 26 ottobre 2011, contenente “indirizzi per la trasformazione di Arin S.p.A. in azienda speciale e di approvazione dello schema di statuto” poté approvare, in via definitiva, il nuovo statuto dell’azienda speciale Abc – Acqua bene comune.

Lo schema di statuto è assai semplice e prevede quali organi dell’azienda speciale un consiglio d’amministrazione composto da cinque membri nominati dal sindaco, un presidente del cda, anch’esso indicato dal sindaco, con poteri di rappresentanza dell’azienda e un direttore generale che provvede alla gestione operativa e alla redazione del piano industriale (denominato Piano programma ecologico partecipato) da sottoporre al consiglio d’amministrazione.

Lo statuto prevede la presenza nel consiglio d’amministrazione di due membri scelti dal sindaco tra i rappresentanti delle associazioni ambientaliste attraverso procedure di evidenza pubblica, nonché l’istituzione di un consiglio di sorveglianza composto da ventuno membri, di cui cinque consiglieri comunali, cinque dipendenti dell’azienda, cinque rappresentanti degli utenti e cinque rappresentanti del mondo ambientalista.

L’Abc e il servizio idrico integrato

Come sopra accennato il servizio idrico integrato, previsto dalla legge Galli poi assorbita dal Codice dell’ambiente del 2006, è un servizio pubblico complesso, composto da più servizi integrati tra loro attraverso un unico soggetto gestore. Mentre in molte regioni del nord e centro Italia, il servizio è stato realizzato con efficacia, non altrettanto può dirsi per le regioni meridionali. In Campania una legge regionale, la n. 14 del 1997, diede una prima attuazione alla legge Galli dividendo il territorio regionale in quattro ambiti territoriali ottimali e istituendo quattro distinte autorità. Ma il servizio non è mai stato effettivamente realizzato se non nell’ATO 3 Sarnese-Vesuviano, comprendente settantasei comuni delle province di Napoli e Salerno. La città di Napoli venne inserita nell’ATO 2 Napoli-Volturno, che comprendeva centotrentasei comuni delle province di Napoli e Caserta. Nel 2004 l’ATO 2 bandì una gara pubblica per la gestione del servizio che prevedeva l’affidamento a una società mista con il quaranta per cento del capitale in mano a soci privati – come previsto dalla normativa allora vigente – che avrebbero acquisito la quota del quarantanove per cento entro i due anni successivi. La gara andò più volte deserta e venne più volte prorogata fino a quando, nel gennaio del 2006, fu definitivamente annullata grazie all’azione dei comitati civici e grazie a un appello internazionale contro la privatizzazione del servizio idrico che vide tra i primi firmatari Danielle Mitterrand, Alex Zanotelli, Gerardo Marotta, Riccardo Petrella, Augusto Graziani, Luigi Ferrajoli, Gaetano Azzariti e molti altri docenti universitari, uomini politici e semplici cittadini[4].

Dopo di allora una legge regionale del 2007 istituì un nuovo ambito territoriale, l’ATO 5 Terra di lavoro, staccando le province di Napoli e Caserta e i rispettivi comuni; vi fu poi un lungo periodo di inattività che durò fino al 2014, quando la giunta regionale, con le norme contenute nei commi 88 e 89 dell’art. 1 della legge regionale n. 16 del 7 agosto 2014, stabilì che la Campania potesse provvedere all’affidamento provvisorio per trentasei mesi del servizio idrico integrato.

Su ricorso del governo nazionale, la Corte costituzionale, con sentenza n. 117 del 25 giugno 2015, dichiarò incostituzionali le disposizioni di tale legge regionale. Pertanto è toccato alla nuova giunta campana, presieduta da Vincenzo De Luca, porre mano a una nuova legge, la n. 15 del 2 dicembre 2015, che istituisce il cosiddetto Ente idrico campano (EIC), al quale dovranno aderire tutti gli enti locali della Campania e che dovrà provvedere all’effettiva realizzazione del servizio idrico integrato oltre vent’anni dopo la legge Galli.

La nuova legge regionale prevede anche cinque ambiti territoriali distrettuali che ricalcano i confini degli ambiti territoriali attualmente esistenti. Ma resta il fatto che il piano di gestione dei vari distretti sarà approvato dall’ente idrico regionale che individuerà il soggetto gestore e provvederà all’affidamento del servizio. Quanto al comune di Napoli e alla sua azienda speciale Abc, c’è da dire che finora tale azienda non si è occupata del servizio idrico integrato ma soltanto dei servizi di captazione, adduzione e distribuzione dell’acqua gestendo acquedotti e impianti di sollevamento. L’azienda non si occupa del servizio di fognatura, che a Napoli viene gestito direttamente dal Comune, né del servizio di depurazione delle acque reflue, di cui si è finora occupata la Regione con risultati non molto lusinghieri.

La trasformazione dell’Arin S.p.A. nell’azienda speciale Abc è, dunque, solo un primo passo per fare della partecipata del comune di Napoli un soggetto imprenditoriale pubblico in grado di gestire l’intero ciclo del servizio idrico integrato a Napoli e in tutto l’ambito distrettuale che, secondo la nuova legge regionale, comprende, oltre al capoluogo, altri trentadue comuni dell’area metropolitana di Napoli.

I burrascosi rapporti tra amministrazione comunale e Abc

Nel 2012 il sindaco di Napoli aveva designato alla presidenza della nuova azienda speciale Abc il professor Ugo Mattei, docente di diritto privato presso l’Università di Torino, che era stato uno degli estensori dei quesiti referendari del 2011. Mattei gestì la complessa fase della trasformazione della forma giuridica e del passaggio dalla vecchia alla nuova gestione. Sebbene per statuto l’incarico di presidente dell’azienda avesse durata triennale, Mattei fu revocato dal suo incarico nell’ottobre del 2014 a seguito di un forte contrasto con l’amministrazione comunale che toccò il suo apice quando il Comune stesso decise unilateralmente – come pure era nelle sue facoltà – la distribuzione degli utili accumulati nel corso degli anni nel bilancio dell’azienda a favore dell’amministrazione comunale, a sua volta afflitta da complessi problemi di bilancio. Sebbene il Comune si impegnasse a restituire successivamente gli utili sottratti all’azienda, la decisione creò una profonda spaccatura all’interno dei comitati civici tra coloro che si mostrarono favorevoli – o mantennero il silenzio sulla decisione – e coloro che espressero apertamente parere contrario.

Poco dopo la revoca del presidente Mattei, a seguito di un nuovo avviso pubblico previsto dal Regolamento nomine del comune di Napoli, l’avvocato Maurizio Montalto, da sempre vicino ai comitati, fu designato dal sindaco a presiedere l’azienda.

Dopo un primo periodo di entusiasmo per la nomina, cominciarono le avvisaglie di un sempre più aspro contrasto tra l’amministrazione comunale e la nuova dirigenza, culminato nell’autunno del 2016, con la revoca dell’avvocato Montalto e dell’intero consiglio d’amministrazione e con la nomina di un commissario che provvedesse all’amministrazione dell’azienda. Secondo indiscrezioni giornalistiche, alla base dei contrasti vi sarebbe stata la divergenza in merito all’assorbimento nell’azienda dell’impianto di sollevamento di San Giovanni a Teduccio, quartiere della zona orientale, e degli oltre cento dipendenti della struttura.

Negli anni dell’amministrazione de Magistris, dopo la trasformazione dell’Arin S.p.A. in Abc, che ha posto Napoli come esempio della ripubblicizzazione dell’acqua, sulla scia di quanto avvenuto qualche anno prima a Parigi e Berlino, si sono alternati alla guida dell’azienda due presidenti e un commissario, diversi direttori generali e consiglieri d’amministrazione senza che l’azienda raggiungesse un assetto stabile che la mettesse in condizioni di gestire il servizio idrico nel nuovo ambito distrettuale istituito dalla legge regionale del 2015. A ciò si aggiunga che l’orientamento del governo e del parlamento nazionale, nonostante il venir meno della riforma Madia bocciata dalla Corte costituzionale, rimane sostanzialmente contrario alle forme di gestione pubblica attraverso aziende speciali.

Tra le grandi città italiane, la vicenda di Napoli è rimasta finora un caso isolato e, date anche le difficoltà incontrate, non è chiaro se sarà un’esperienza che andrà consolidandosi oppure vedrà una brusca interruzione imposta dalle normative regionali e nazionali. È certo però che non si tratta di un caso isolato nel più vasto panorama internazionale: negli ultimi quindici anni ben 235 città di 37 paesi diversi hanno ri-municipalizzato i servizi idrici, spesso dopo una negativa esperienza di privatizzazione come nei casi già ricordati di Parigi e Berlino.

A ciò deve aggiungersi che anche tra gli economisti va prendendo piede una scuola di pensiero sviluppata dal Centre for Research on Socio Cultural Change (CRESC) dell’Università di Manchester che avendo rilevato l’inefficienza economica dell’outsourcing, sostiene la necessità di un ritorno alla cosiddetta “economia fondamentale”. Si tratta, cioè, di elaborare forme di organizzazione dei servizi che pongano come scopo dell’efficienza non la produzione di profitti più alti ma la conservazione delle risorse e la produzione di quei beni connessi alla necessità di soddisfare i diritti fondamentali e di assicurare la sopravvivenza e la qualità della vita di ciascun essere umano[5].

[1] Sul punto si vedano tra gli altri Roberto Caranta, “Il diritto dell’UE sui servizi di interesse economico generale e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”, in Le Regioni, n. 6, 2011, pp. 1175-1193; Sergio Marotta, “La depubblicizzazione dei servizi idrici. Dalla municipalizzazione all’obbligo di esternalizzazione”, in Munus. Rivista giuridica dei servizi pubblici, n. 1, 2011, pp. 177-198.

[2] Si veda Corte costituzionale 20 luglio 2012, n. 199. Cfr. Sergio Marotta, “Stato versus società. I servizi pubblici locali alla prova dell democarzia diretta”, in Munus, n. 2, 2012, pp. 439-451.

[3] Corte costituzionale, 26 gennaio 2011, n. 24, punto 4.2.2 delle Considerazioni in diritto. Con tale sentenza la Corte aveva, dunque, definitivamente sancito la mancanza di ogni serio fondamento dell’idea, circolata in Italia per molti anni, secondo cui l’uscita dal sistema della municipalizzazione della gestione dei servizi pubblici locali fosse imposta al nostro paese dal diritto dell’Unione Europea (sul punto si veda Marco Ruotolo, “Non ‘ce la chiede l’Europa’ e ‘non la vogliono i cittadini’. Brevi note sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali”, in Costituzionalismo, n. 2, 2012)..

[4] Lucarelli A., Marotta S. (a cura di), Governo dell’acqua e diritti fondamentali, Napoli, 2006, www.napoliassise.it/acqua.htm.

[5] Si veda in proposito Barbera F., Dagnes J., Salento A., Spina F. (a cura di), Il capitale quotidiano. Un manifesto per l’economia fondamentale, Donzelli, Roma 2016.