Una presenza invisibile. L’agricoltura degli spazi vuoti

di Antonio Di Gennaro

Le attività agricole nell’area metropolitana di Napoli sono l’eredità di tre millenni di storia e civilizzazione. Ancora alla metà del ‘900, prima della grande trasformazione urbana, l’ecosistema rurale della piana campana costituisce la matrice rurale assolutamente dominante – il 93% della superficie territoriale – caratterizzato dalla sostanziale integrità degli assetti agronomici, aziendali, produttivi, paesaggistici. Notevole è la descrizione della pianura napoletana in questo preciso momento storico, fatta da Aldo Sestini nel suo fondamentale libro sui paesaggi italiani: “I caratteri essenziali si riassumono in breve: terreno piano e fertilissimo, straordinaria intensità di colture variate – con piante arboree ed erbacee – grande fittezza del popolamento, soprattutto sotto forma di grossi centri assai compatti. Non un angolo di terreno va perduto, e più che di campi bisogna parlare di orti e frutteti, se non vogliamo dire giardini. Svariate colture erbacee si accompagnano a quelle legnose, e si alternano da un appezzamento all’altro, da un’aiuola all’altra, ma che si succedono sullo stesso terreno più volte nel corso dell’anno. Così il paesaggio è sempre più o meno verdeggiante, grazie alla già menzionata fertilità del suolo, ma anche al clima mite dell’inverno e alla laboriosità indefessa degli agricoltori, siano essi veri ortolani, proprietari o affittuari di un minuscolo riquadro di terra (non sempre sufficiente alla vita della famiglia), o salariati e braccianti al servizio di aziende agrarie di qualche estensione. Dove la coltura appare relativamente meno densa, i campi a seminativi – grano, granturco, patate e legumi primaticci, barbabietole da zucchero, molta canapa, ecc. – rimangono serrati tra filari di alti pioppi slanciati, o anche di noci, tra i quali si distendono come ragnatela, in lunghi festoni orizzontali, i tralci delle viti, su su fino a parecchi metri dal suolo. Altrove si inseguono a perdita d’occhio le regolari piantagioni di frutteti. … L’intensità del popolamento è necessaria a uno sfruttamento così spinto della terra, ed è insieme una conseguenza di questo. Comuni essenzialmente agricoli segnano 500 o 1.000 e più abitanti per kmq. Popolosi centri, con più migliaia di anime ciascuno, s’incontrano quasi a ogni passo, talora vicinissimi o addirittura contigui, come tra Napoli ed Aversa e intorno a Caserta; in certi tratti si aggiungono masserie sparse o casali o casette isolate recenti.”[1]

Un sessantennio di sviluppo non governato del territorio ci separa dalla descrizione di Aldo Sestini. Le aree agricole che cingono il sistema metropolitano, in assenza di una qualsiasi riconoscimento condiviso di funzione e valore, hanno finito per scadere progressivamente, dai giardini di Sestini,  verso lo status indefinito di spazi vuoti, per usare l’espressione di Bauman: “Gli spazi vuoti sono  innanzitutto e soprattutto vuoti di significato. Non sono insignificanti perché vuoti: sono piuttosto visti come vuoti (o più precisamente non vengono visti affatto) perché non presentano alcun significato e non sono ritenuti in grado di presentarne uno… …Gli spazi vuoti…sono luoghi non colonizzati e luoghi che nessuno desidera o sente la necessità di destinare alla colonizzazione. Sono, potremmo dire, i posti “restanti” una volta completata l’opera di strutturazione degli spazi più appetibili … La vacuità del luogo è negli occhi di chi guarda e nelle gambe o nelle ruote di chi procede. Vuoti sono i luoghi in cui non ci si addentra e in cui la vista di un altro essere umano ci farebbe sentire vulnerabili, a disagio e un po’ spaventati[2].”

La cosa sorprendente, a dispetto della percezione dominante, è che i numeri raccontano invece di un’agricoltura della piana campana che, seppur incastrata nei vuoti del disordinato sistema metropolitano, è ancora viva, con un sistema di 38.000 aziende attive, che producono il 40% del valore aggiunto dell’agricoltura regionale, con valori di produzione unitari che sono tre volte la media regionale[3]. Il motore dell’agricoltura regionale, con il suo popolo di addetti, nonostante tutto, è ancora qui. La salubrità delle produzioni di questa agricoltura degli spazi vuoti, che pure viaggiano lungo le filiere lunghe di mezzo mondo, è stata recentemente messa in dubbio, a causa di possibili contaminazioni dovute ai rifiuti. I rigorosi controlli effettuati dicono il contrario: i suoli agricoli contaminati identificati dal gruppo di esperti ministeriale assommano ad una trentina di ettari, mentre gli oltre 5.000 controlli effettuati sulle produzioni, ne hanno evidenziato la completa sicurezza e conformità alle leggi.

In definitiva, le conoscenze delle quali disponiamo consentono di affermare che la piana campana deve sì considerarsi un pezzo di territorio scombinato e sconquassato da un cinquantennale saccheggio, ma soffre alla fine degli stessi mali delle altre pianure italiane ed europee a comparabile grado di antropizzazione e urbanizzazione. Si tratta certo di un contesto nel quale le attività agricole devono faticosamente convivere con un sistema urbano fuori controllo, ma almeno sotto il profilo della sicurezza alimentare l’inferno non abita qui, i prodotti agricoli si sono rivelati sicuri: gli spazi rurali continuano a funzionare come elemento di ordine e riserva di futuro, piuttosto che come centri di rischio. I risultati del monitoraggio capillare dei suoli e delle produzioni agricole condotto in questi ultimi due anni dicono questo.

In realtà, le aree da mettere in sicurezza sono perfettamente note da un decennio, sono le poche centinaia di ettari (su 140.000 ettari della piana) di pertinenza delle grandi discariche che per un trentennio hanno ingoiato flussi ingenti, legali e non, di rifiuti urbani e speciali. L’unica cosa seria da fare è quella di mettere in sicurezza una volta per tutte queste ferite, con approccio sobrio e tempi rapidi, restaurando un paesaggio leggibile, di qualità, e affrontando di petto la causa dei problemi, invece di inseguirne i malintesi sintomi. In assenza di ciò, il risultato, per ora, è l’assegnazione per legge all’area napoletana, da parte della comunità nazionale, di  un marchio di inaffidabilità a tempo indeterminato[4].

Resta il fatto che il mosaico rurubano, fatto di spazi vuoti e poveri pezzi città, il paesaggio senza capo né coda, che si coglie dai viadotti che frettolosamente lo attraversano e scavalcano,  è l’ambiente nel quale vivono i due terzi della popolazione provinciale, che ha oramai identificato proprio in questo disordine, nella fatica del vivere quotidiano che esso comporta, la principale minaccia alla propria esistenza e al futuro. La crisi della Terra dei fuochi sta tutta qui, nell’atteggiamento di complessivo rifiuto di un habitat percepito come ostile, a partire proprio dalle sue componenti rurali, considerate in un simile contesto alla stregua di vere e proprie fonti di rischio. Una prospettiva da ribaltare completamente, restituendo alle componenti rurali dell’area metropolitana, il ruolo prezioso di green belt multifunzionali, aree preziose di compensazione ecologica e di conservazione del paesaggio.

[1] Sestini A., Il paesaggio, “Conosci l’Italia”, vol. VII, Touring Club Italiano, Milano 1963, pp. 145-147; per un’analisi dinamiche dei paesaggi rurali nel periodo 1960/2000 vedi: di Gennaro A. e Innamorato F. La grande trasformazione. Il territorio rurale della Campania 1960/2000. Clean, Napoli 2005.

[2] Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 114-116. Per un profilo storico sintetico dell’evoluzione degli spazi agricoli periurbani della piana campana vedi: di Gennaro A., La terra lasciata, ora in: di Gennaro A., “La misura della terra. Crisi civile e spreco del territorio in Campania”, 2012, Clean edizioni, pp. 14-34

[3] di Gennaro A., Un’insensata diffidenza sta uccidendo l’agricoltura. “La Repubblica” sez. Napoli, 13 ottobre 2013

[4] di Gennaro A., Terra dei fuochi, la crisi in un’area di 800 ettari, “La Repubblica”, sez. Napoli, 7 gennaio 2014