Fondi rustici urbani. Quel che resta della campagna in città

di Bruno Brillante

I fondi rustici rappresentano l’ultima testimonianza di quella che, fino a non moltissimi anni fa, era la vasta e fertilissima campagna napoletana. Nel 1980, secondo il censimento Istat del Comune di Napoli di quell’anno, in città esistevano ancora 3.140 aziende agricole che lavoravano 2.330 ettari di superficie; nel 1990 le aziende si erano ridotte a 1.905, distribuite su 1.428 ettari. L’ultimo censimento Istat dell’agricoltura (2010) riporta che la superficie agricola utilizzata (SAU), si estende su poco più di mille ettari di territorio.
Queste aree residue di campagna coltivata, parcellizzata in piccoli appezzamenti, raramente di superfici superiori all’ettaro, sono localizzate prevalentemente nella cintura collinare, in qualche caso in un contesto ambientale miracolosamente rimasto integro, a dispetto delle ferite subite dal territorio negli ultimi cinquant’anni.
Nelle antiche cartine topografiche si poteva vedere una città che, oltre ad affacciarsi sul mare, era circondata e percorsa da una natura generosissima. Nonostante l’inurbamento e il conseguente aumento della popolazione cittadina a scapito di quella delle campagne e dei casali, fino all’ultima guerra mondiale il paesaggio napoletano conservava la bellezza armonica che l’ha reso celebre nel mondo. Poi, con la speculazione edilizia, il sacco di Napoli ebbe inizio e la città cambiò volto.

Lo stato dei luoghi
Le aziende agricole urbane si trovavano, e ancora si trovano, su terreni appartenenti alla Curia, oppure su antiche proprietà terriere. Con il tempo le grandi proprietà sono state divise e la parcellizzazione degli ultimi decenni, dovuta soprattutto alla costruzione di complessi abitativi e di strade (per esempio, la tangenziale), ha diviso e allontanato gruppi familiari un tempo uniti, oltre che da vincoli parentali (famiglie allargate), anche da interessi di lavoro (semina, raccolta, cura dei campi, bestiame in comune, ecc.). Molti terreni sono stati venduti o espropriati, i coloni liquidati dai proprietari e i suoli, in attesa delle licenze edilizie, sono stati abbandonati divenendo spesso discariche a cielo aperto.
La legge dei patti in deroga (203/82), e in particolare l’articolo che obbliga il conduttore al rilascio del fondo alla scadenza legale del contratto, ha favorito e accelerato l’abbandono di molti fondi rustici della provincia, suscettibili di destinazioni più lucrose per la proprietà. Ad aggravare la situazione, una legge che consente di costruire parcheggi sotterranei che, pur lasciando intatta la superficie, comportano gravi danni alle radici degli alberi e modificazioni al drenaggio dei suoli che col tempo, inevitabilmente, portano alla cessazione delle attività agricole soprastanti.
La realizzazione della tangenziale ha inferto un colpo decisivo a quel che restava del paesaggio agricolo napoletano. La cinta collinare da Posillipo fino a Poggioreale conservava, nonostante i numerosi episodi di aggressione, una continuità non solo territoriale ma anche economica e antropologica caratterizzata dalla presenza plurisecolare della famiglia contadina.
Sempre in ambito cittadino, l’altra grande realtà agricola era rappresentata dai contadini della zona orientale, nell’antica piana del Sebeto: ‘e pparule, le paludi. Gli abitanti di quella zona hanno caratteri somatici affini tra loro e diversi dai coloni della città collinare: sono per lo più longilinei, e spesso con gli occhi azzurri; qui ancora si odono parole e frasi ormai in disuso nel resto della città, termini strettamente legati al lavoro dei campi o alle stagioni, proverbi e massime che servivano a rinforzare le conversazioni.
Un terzo e ultimo settore nel quale comprendere i restanti contadini urbani è quello costituito dalle aziende agricole disseminate in città, spesso nascoste alla vista dalla presenza di grossi fabbricati o celate nel silenzio di antichi cortili.
Per avere un’idea dello stato dei luoghi, può essere utile un viaggio in auto lungo la tangenziale. Venendo dalle autostrade, quindi da Capodichino, subito a destra risaltano piccole oasi di verde circondate dal cemento e più in lontananza la collina di Capodichino, in buona parte occupata dall’aeroporto, che si continua con quella di Capodimonte. La prima galleria trafora Capodimonte, ma subito prima, sulla destra, ‘e prevetarielle, ovvero la campagna compresa tra Sant’Eframo e la salita dei Ponti Rossi; a sinistra il Moiariello con la torre del Palasciano in bella evidenza. Dopo il tunnel, sulla destra, superata la stazione di servizio, c’è il vallone dello Scudillo, con l’omonima ripidissima salita che dal rione Sanità raggiunge i Colli Aminei. Davanti l’Arenella; a destra e sotto la tangenziale il vallone dei Gerolomini, che dal Cardarelli porta giù all’estremo limite settentrionale di quella che un tempo era la vallata della Sanità. Un po’ più lontano sulla sinistra, la collina di San Martino; e poi, continuando in direzione di Pozzuoli, la collina dei Camaldoli sulla destra e a sinistra il boscoso versante occidentale della collina di Posillipo, da via Manzoni fino al Capo di Posillipo, e poi Nisida; a destra, Fuorigrotta con le colline di via Terracina per finire ad Agnano, zona ricca di campagne e di boschi.
In questa campagna, che era parte integrante del paesaggio fino a una sessantina di anni fa, i coloni comunicavano tra loro attraverso vie tagliate nel cuore della città – antichi canaloni per la raccolta delle acque pluviali e torrentizie, cupe, cavoni, sentieri e scale scavate nel tufo – per commerciare, scambiarsi semi, innesti, opere e assistenza reciproca, oltre che naturalmente per motivi di familiarità e di cortesia. Minopoli, Varriale, Cuomo, Nasti, Verdolino, questi alcuni cognomi delle famiglie contadine napoletane; spesso i matrimoni avvenivano tra famiglie già unite da antichi vincoli parentali e così la famiglia si allargava e i legami contribuivano a mantenere viva la tradizione. Numerosi gli aneddoti legati alla vita dei campi, sebbene in città, e alle consuetudini di un’economia basata prevalentemente sul lavoro della terra e sul governo degli animali.
Fino agli inizi degli anni Sessanta, durava il costume di trasferirsi in città dai paesi natii (Somma Vesuviana, San Sebastiano al Vesuvio, ecc.) per trascorrere i mesi caldi presso un podere napoletano: intere famiglie con animali al seguito si accampavano nelle fertili campagne del Moiariello (tra via Foria e Capodimonte) o in altre campagne della collina, raccogliendo la frutta dagli alberi e aiutando i coloni ospiti nei lavori dei campi; la frutta veniva venduta agli angoli delle strade più frequentate (ancora oggi nella centralissima Porta San Gennaro si vendono gelsi, fichi e altra frutta di stagione in cesti poggiati per terra) e nel frattempo si crescevano i maiali che sarebbero stati macellati ai primi freddi dell’inverno seguente nel paese di provenienza.
Era un’usanza antica quella di lasciare ai primi caldi il paese natale per trasferirsi e vivere come si poteva in campagne più ricche e soprattutto in piena città, dove una clientela ricca e raffinata era pronta ad acquistare i prodotti della stagione. Fichi, albicocche, pesche e nespole insieme alle verdure fresche erano portate tutti i giorni nei vari punti di vendita cittadina, presentate su larghe foglie o aggiustate in ceste di castagno, in quei luoghi dove da tempo immemore si davano incontro venditori e acquirenti.
Il Pascone era quasi una stazione obbligata per chi, proveniente dai paesi vesuviani, si recava in città. Lungo la strada c’era ancora qualcuna delle antiche trattorie, le cosiddette pagliarelle, che offrivano ristoro tutto l’anno e ombra d’estate. Famose e celebrate, soprattutto da Salvatore di Giacomo, la taverna delle Carcioffole, la taverna di Monzù Arena e altre. Meno nota ma più recente la taverna d’Aniello a Puntiette, a Poggioreale, in uso fino ai primi anni Cinquanta del secolo scorso.
La vita in comune per così lunghi periodi comportava fenomeni di costume e consuetudini che purtroppo non sono mai stati studiati; ne rimane solo qualche accenno nei racconti dei pochi testimoni viventi. Certamente saranno nati amori e amicizie tra i locali e gli “immigrati”: un vero incontro tra culture, ché ancora si poteva parlare di culture diverse sebbene si trattasse di persone provenienti da luoghi che distavano non più di 50 km l’uno dall’altro.

Tra presente e futuro
Napoli non è solo città d’arte e di monumenti, era ed è una città di mare, di orti e di giardini. Mentre i monumenti sono sopravvissuti alle ingiurie del tempo e degli uomini, e oggi, rivalutati e protetti, costituiscono una delle maggiori attrattive per i turisti, il paesaggio naturale, la residua campagna napoletana, non gode di altrettanta fortuna. Dopo i colpi inferti dalla speculazione edilizia e dalla ricostruzione del dopo terremoto, le superstiti aziende agricole urbane, ridotte in piccoli lembi di terra, tra strade, superstrade e svincoli, rischiano di sparire per sempre. La creazione di parchi urbani, fiore all’occhiello di assessori e amministratori, purtroppo non è andata di pari passo con la salvaguardia del territorio; e così, mentre si creano nuovi spazi protetti per legge, si tollerano e a volte si incoraggiano le aggressioni al paesaggio.
Stiamo perdendo la nostra piccola Amazzonia, la campagna originaria con i suoi semi e le sue piante sopravvissute e sfuggite al controllo delle multinazionali, proprio perché, ufficialmente, in città non esiste l’agricoltura. Si tratta di un paradosso che, negando l’evidenza, fa mancare aiuti e incentivi a chi continua a coltivare angoli di territorio comunale e a chi, soprattutto negli ultimi anni, ha dedicato tempo e passione al recupero di orti e giardini, consentendo la sopravvivenza di semi e piante anche molto antiche, che hanno continuato a nascere e produrre ortaggi e frutta dal sapore ormai raro. Con gli ultimi vecchi coloni, però, spariranno saperi e tradizioni e saremo tutti più poveri.
Dopo molti anni, oggi molte persone hanno capito che prodotti provenienti da campi nascosti nel cuore della città possono essere superiori per qualità e genuinità a merce proveniente da campagne trattate chimicamente, forse con pesticidi, spesso in luoghi lontani. Negli ultimi venti anni, nonostante la scarsa attenzione delle istituzioni, molti giovani hanno recuperato spazi e terreni abbandonati e hanno cominciato a zappare e seminare. Gli orti urbani si sono moltiplicati e così pure i mercatini del biologico, luoghi dove produttori e acquirenti hanno la possibilità di incontrarsi per scambiarsi saperi e prodotti. Da tempo l’associazione fondi rustici è impegnata nella difesa dell’agricoltura urbana a Napoli e in provincia, e già venti anni fa, durante la realizzazione della Variante di salvaguardia, aveva proposto la realizzazione di un Parco agricolo urbano, per la tutela e la valorizzazione delle residue aziende agricole napoletane.