Prendi i soldi e scappa. Politica regionale e fondi comunitari

di Francesco Festa

Dalla seconda metà degli anni Ottanta, l’Italia vede emergere quello che sarà noto a livello internazionale come uno degli esempi più significativi di “nuovo spazio industriale” nella transizione post-fordista: la cosiddetta Terza Italia, con la sua originale costellazione di piccole e medie imprese organizzate in distretti industriali e il relativo paradigma organizzativo e sociale del “capitalismo di territorio” a sviluppo endogeno, noto anche come “capitalismo molecolare”. Il modello ispiratore è quello spagnolo e in particolare quello catalano: con il suo neo-regionalismo s’impone come altro spazio economico specializzato oltre l’industrializzazione, puntando sui settori della conoscenza, del turismo e del consumo. L’Italia conosce un processo di ascesa economica paragonabile a quello catalano, alimentato dalla diffusione del turismo internazionale di massa, mentre dalla seconda metà degli anni Novanta, il Mezzogiorno post-terremotato conosce un repentino sviluppo economico, trainato dal settore edilizio non solo nelle grandi città e nelle località turistiche, ma anche nell’entroterra rurale (il secondo circuito del capitale nei termini di Harvey[1]).

In tale congiuntura, una spinta decisiva al protagonismo regionalista viene dalla costituzione dell’Unione Europea e in particolare dal rilancio della “politica regionale comunitaria” dopo la riforma dei fondi strutturali voluta dal Commissario Jacques Delors alla fine degli anni Ottanta. Agli occhi dei sostenitori, infatti, fin dall’origine dell’Unione era evidente che per raggiungere una forma politica pienamente federata, in base al principio del Trattato di Maastricht di una federazione anche solidale, si dovesse operare per eliminare le profonde differenze esistenti tra le regioni più ricche e quelle meno avvantaggiate. A tale scopo fu varata una politica di interventi sul territorio. In particolare, ai sensi del Trattato di Lisbona, la UE ha elaborato e continua a sostenere una specifica politica di coesione economica e sociale.

Obiettivi e caratteri dei fondi strutturali

Lo strumento elaborato per concretizzare tale finalità sono, appunto, i cosiddetti fondi strutturali europei. Questi nel corso del tempo hanno subito continue e opportune modifiche, in rapporto con le diverse posizioni politiche e programmatiche assunte nel tempo dall’Unione. Fino all’allargamento ai paesi dell’est, dal 2004 in poi, le regioni svantaggiate dell’Italia meridionale sono state destinatarie dei fondi europei per lo sviluppo regionale, insieme ad alcune regioni dell’Irlanda, della Germania, della Grecia e della Spagna. Per utilizzare ancora la terminologia di Harvey, i fondi strutturali sono stati utilizzati per sostenere il circuito secondario del capitale (investimenti nell’ambiente fisico e in infrastrutture) e quello terziario (investimenti nell’economia della conoscenza). Un metodo che riprende la filosofia dell’economia liberale classica adottata già nella legislazione speciale per Napoli e per il meridione voluta da Francesco Saverio Nitti, secondo cui la costruzione delle infrastrutture spetta al capitale pubblico, in modo da favorire l’altra parte, l’investimento privato; da qui, per esempio, la costruzione in termini industriali del porto di Napoli per accogliere gli armatori privati, a seguito della legge speciale del 1904 voluta da Nitti. La filosofia dei fondi destinati al sud Italia ha tale indirizzo: un uso privatistico istradato dall’azione della mano pubblica.

L’obiettivo all’origine del rilancio della politica regionale comunitaria era quello di perseguire il progetto di costituzione dell’Europa meridionale e delle altre regioni svantaggiate come territori capaci di competere autonomamente nella globalizzazione. Il fine dei fondi strutturali, pertanto, non è il riequilibrio economico tra le regioni ricche e quelle svantaggiate, come nelle politiche regionali di epoca keynesiana, ma il rafforzamento della competizione interregionale nel contesto della globalizzazione. Per realizzare quest’obiettivo, ai fondi strutturali è stato associato un processo di controllo attraverso enti periferici sempre più molecolari delle regioni destinatarie dei finanziamenti, che si sono trovate iscritte in meccanismi sempre più standardizzati – seppur spesso fallaci nel funzionamento concreto – di valutazione dell’azione di governo. Nelle regioni economicamente più deboli, tale sistema ha alimentato la formazione di un ceto locale di amministratori e tecnocrati specializzati nell’intermediazione con le istituzioni comunitarie e le agenzie nazionali di sviluppo.

Gli obiettivi principali dei fondi strutturali sono tre: la riduzione delle disparità regionali in termini di ricchezza e benessere; l’aumento della competitività e dell’occupazione; il sostegno della cooperazione transfrontaliera. I fondi strutturali impegnano il 37,5% del bilancio complessivo dell’Unione. Negli ultimi due cicli, la cui durata è settennale, i fondi hanno avuto a disposizione circa un terzo del bilancio europeo: nel 2000-2006 circa 195 miliardi di euro, e in quello appena concluso, 2007-2013, sono diventati circa 335 miliardi.

La natura dei fondi è ripartita in Fondo europeo di sviluppo regionale e Fondo sociale europeo, con strumenti polivalenti: finanziari, di programmazione, di pianificazione; vale a dire che da un lato sono stati creati per cofinanziare e programmare in modo pluriennale gli interventi sul territorio, dall’altro hanno sigle differenti perché si occupano di aree funzionali differenti. Inoltre i fondi strutturali vengono espressi da specifici programmi regionali, analoghi nei fatti agli strumenti di programmazione e pianificazione territoriale: tra questi, i Programmi operativi regionali (Por) e nazionali (Pon). A ben guardare, ogni programmazione è più ampia degli anni formalmente indicati, ossia i cicli dei fondi strutturali si chiudono fiscalmente due anni dopo il rispettivo termine: vale a dire che il ciclo 2000-2006 si chiude nel 2008 e quello 2007-2013 nel 2015; inoltre, riguardo alla valutazione dei risultati dei progetti, sono necessari ancora altri anni oltre il termine formale, secondo la tipologia del progetto: per esempio, l’investimento in infrastrutture fisiche ha dei tempi di ammortizzazione inferiori a quelle formative e culturali, dove i risultati sono verificabili in un lungo periodo e nella capacità reattiva della comunità locale.

La strategia Europa 2020, prevista nel ciclo 2014-20, punta a rilanciare l’economia europea nel prossimo decennio. In pratica, l’Unione si è posta cinque ambiziosi obiettivi – in materia di occupazione, innovazione, istruzione, integrazione sociale e clima/energia – da raggiungere entro il 2020. Ogni stato membro ha adottato per ciascuno di questi settori i propri obiettivi nazionali. Interventi concreti a livello europeo e nazionale vanno a consolidare la strategia.

La questione meridionale diventa europea

L’Italia, seconda beneficiaria dei fondi europei, è però la peggiore nella gestione, a causa del mancato utilizzo dei fondi: meno del 68% quelli impiegati dalla Campania, e complessivamente il 76,5% dall’Italia. Secondo il Commissario europeo per le politiche regionali, Corina Cretu, la Campania è a rischio “disimpegno automatico” relativamente ai fondi 2007-2013 per non aver speso oltre il 40%[2]. Le ragioni di questo lassismo riguardano gli usi illeciti e l’impiego irregolare delle risorse: soltanto nel 2014, l’organismo comunitario per la lotta alle frodi, ha scoperto l’utilizzo illegittimo di quasi 100 milioni, la maggior parte dei quali, il 58,8%, relativamente ai fondi strutturali, di cui il 26% riguardava la Campania. Tra le cause dell’uso illecito vi è una destinazione impropria, ossia l’utilizzo come sostitutivi e non aggiuntivi del fondo europeo di sviluppo regionale. Un’altra causa è profondamente politica: la qualità mediocre della filiera di classi dirigenti, tecnocrati ed esperti di governance dello sviluppo regionale, il più delle volte direttamente controllati dalla politica locale per finalità clientelari. Infatti, è ormai discorso pubblico di programmi e annunci elettorali il tema dei fondi: una sorta di mantra che va messo sempre in cima alla lista, salvo poi non essere in grado di adoperarne le risorse in maniera efficace. E d’altro canto le politiche comunitarie hanno evidenziato, in genere, un debole coinvolgimento dei cittadini. A ben guardare, gli ultimi vent’anni di politica regionale comunitaria hanno rappresentato un’occasione persa per la formazione di una cittadinanza autenticamente europea; un obiettivo incessantemente evocato, per lo più in chiave retorica e idealistica, dalle élite europee, ma nei fatti sacrificato in nome della competizione tra regioni e città.

Nel Por della Campania, indirizzato dal governo, vi sono due priorità strutturali: la provincia casertana, ultimamente nota come Terra dei fuochi, e l’area di Bagnoli. Si tratta di priorità al cui centro vi è la questione ambientale, il primo degli obiettivi previsti dai fondi comunitari 2014-20; gli altri due sono la formazione di forza lavoro specializzata e la valorizzazione del territorio (in particolare, banda larga e internet). Nel dicembre 2012, l’allora ministro per la coesione territoriale Fabrizio Barca, illustrava le politiche comunitarie per il sud Italia nel documento “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020”; dall’articolato si evince che 23,4 miliardi verranno utilizzati principalmente nell’infrastruttura ambientale: il recupero, la bonifica e la ristrutturazione dell’area metropolitana della costa, quella che con Manlio Rossi Doria definiamo la “polpa del Mezzogiorno”.

La questione meridionale è divenuta questione europea, anche se dai risultati dei primi cicli dei fondi notiamo che il divario tra la Campania e la Ruhr, regione tedesca che ha usufruito del primo ciclo, anziché diminuire è cresciuto. In verità, nel prossimo ciclo, non appaiono chiaramente gli obiettivi, sebbene siano indicati dei campi di intervento. Lo stesso Barca ha sottolineato a più riprese come il “riscatto della qualità dell’azione pubblica nel Mezzogiorno” tramite l’utilizzo delle politiche di coesione, potrebbe avvenire tramite “comportamenti” e “condotte” virtuose: “l’azione per la coesione deve destabilizzare queste trappole del non-sviluppo, evitando di fare affluire i fondi nelle mani di chi è responsabile dell’arretratezza e della conservazione; aprendo invece agli innovatori nei beni pubblici e nel modo in cui si producono[3]”.

Si noti l’attenzione verso la riproducibilità di tecnocrati ed esperti che, in verità, sono una delle cause dell’uso improprio o poco accorto dei cicli di fondi degli ultimi quindici anni. A ben guardare, andrebbe anche messa a verifica l’idea di sviluppo, di crescita e di rapporto tra regioni arretrate e regioni avanzate nell’UE; in altri termini, quella costruzione necessaria di angoli esterni allo sviluppo necessari per l’approvvigionamento dei centri di accumulazione, come direbbe Rosa Luxemburg: “come mercati di sbocco del plusvalore, come fonti di approvvigionamento dei mezzi di produzione, come riserve di forze-lavoro[4]”.

Dunque, il pacchetto legislativo sulla politica 2014-20 a Napoli avrà un’agenda tipicamente centrata su progetti di sviluppo e di accumulazione nella questione ambientale e nella formazione di forza lavoro specializzata destinata all’emigrazione. Vale a dire: l’inaugurazione di nuovi insediamenti industriali; le bonifiche ambientali; l’investimento in centri di alta specializzazione tecnologica (Atitech, Alenia, e non da ultimo le sortite della Apple) per la formazione di forza lavoro per lo più destinata alle regioni del centro Europa, in particolare della Germania.

A chi giova il rapporto sviluppo/sottosviluppo? Dal 2000 al 2014 i fondi comunitari hanno garantito un certo grado di subalternità al discorso europeo, favorendo la mobilità della forza lavoro all’interno di uno sviluppo complessivo del mercato europeo. In questo modo, la dualità sviluppo/sottosviluppo non è stata superata, bensì integrata nel sistema europeo. Non più Napoli e la Campania come esterni, ma come città e regione periferie dello sviluppo. Il mercato europeo funziona grazie a tale rapporto. La questione meridionale è ormai questione europea, per la gioia della classe dirigente locale che ne auspica così il superamento grazie all’influenza di etiche razionalistiche e luterane. Probabilmente, con buona pace di Machiavelli, i fini sono stati curvati dai mezzi: col trascorrere dei cicli di finanziamento, infatti, le classi politiche e burocratiche hanno cambiato i fini attraverso i mezzi, in modo che oggi è impossibile definire quali siano realmente gli obiettivi, la direzione che dovrebbe prendere lo sviluppo, mentre è evidente la necessità di riprodurre un manipolo di tecnici per garantire tali finanziamenti in funzione di governo ed elettorale; piuttosto che destinare tali risorse, con obiettivi puntuali, alle esigenze di un progresso in grado di rispondere alle necessità delle comunità locali.

[1] Harvey D., “The urban process under capitalism: A framework for analysis” in International Journal of Urban and Regional Research, vol. 2, n. 1-4, 1978, pp. 101-131.

[2] Chiellino G., “Il Commissario Cretu: semplificazione sui fondi europei”, Il Sole24ore, 27/10/2015.

[3] www.dps.tesoro.it/view.asp?file=2012/133620_comunicato27dicembre.htm&img=new.

[4] Luxemburg R., L’accumulazione del capitale, Einaudi, Torino, 1972, p. 363.