Lo specchio sommerso. I fondali della metropoli

di Marcello Anselmo

Il golfo di Napoli era considerato dagli strateghi militari della guerra fredda il luogo dal quale poter dirigere e sovrintendere le operazioni belliche in tutto lo scacchiere mediterraneo. Non a caso vi risiedono il comando della Sesta flotta statunitense e il comando Nato per l’area mediterranea. Ma che il golfo sia l’ombelico del Mar Mediterraneo[1] è innanzitutto un dato biogeografico, in quanto zona di transizione latitudinale tra le coste temperato-calde dell’Africa settentrionale e le coste temperato-fredde del continente europeo. La particolare posizione geografica favorisce la coesistenza nelle acque del golfo di una ricchissima miscela biologica, fatta di elementi sia caldi che freddi, che trovano habitat ideali nella grande eterogeneità geologica e idrologica dei suoi ambienti. Il fondale del golfo è un luogo prossimo alla metropoli dove fauna, flora e geomorfologia hanno caratteri di unicità e coesistenza sorprendenti, testimoniate dall’esistenza della stazione zoologica Anton Dohrn, fondata nel 1872 e dedicata allo studio di questo mondo sommerso.

Geomorfologia della linea costiera

Il golfo di Napoli è comunemente rappresentato a partire dalla sua esteriorità, tuttavia la peculiarità risiede nelle sue caratteristiche sommerse. I suoi confini sono compresi tra Punta della Campanella a sud est e Monte di Procida a nord ovest. Queste due estremità in realtà comprendono la baia di Pozzuoli (tra capo Posillipo e capo Miseno) e la baia di Napoli (tra capo Posillipo e Punta della Campanella). Un altro segno di confine è dato dalla linea immaginaria che corre tra l’isola d’Ischia e quella di Capri, spazio noto come la Bocca Grande di ingresso nel golfo.

Il primo aspetto da chiarire è la natura geomorfologica della linea costiera, che può essere sinteticamente divisa in tre settori principali. Il settore nord-occidentale (da capo Miseno fino al porto commerciale della città) è una grande caldera di tufo giallo napoletano che ha come riscontro in terraferma il sistema vulcanico dei Campi Flegrei e della Solfatara. Questa caratteristica ha reso la morfologia di tale tratto costiero molto articolata e soggetta al fenomeno del bradisismo che porta la costa a sensibili trasformazioni delle quote emerse, le quali regrediscono o avanzano a seconda della pressione esercitata dalla camera magmatica sottostante al fondale. Altro effetto della presenza di attività vulcanica sono le emissioni gassose sottomarine che costellano la costa, dalla baia di Trentaremi fino a Miseno.

Il settore centrale – quello corrispondente alla costa della città – è invece interessato dalle falde del sistema vulcanico del Somma-Vesuvio, con una linea costiera che parte dalla frastagliata collina di Posillipo (isola della Gaiola, baia di Trentaremi) per arrivare alla forma lineare e omogenea del litorale tra Portici e Torre Annunziata, determinata dagli effetti della colata lavica dell’eruzione del 1794 (le sabbie nere tipiche del litorale che va dalla zona della Vigliena fino a Oplonti/Torre Annunziata).

Il terzo settore è definito carbonatico-dolomitico: una linea costiera declinata dal sistema montuoso dei monti Lattari e dell’Appennino campano. In questa porzione sud-orientale del golfo la costa è molto alta e frastagliata, tipicità di quella che è nota come costiera sorrentina.

Una simile eterogeneità ha un’immagine riflessa nel sistema dei fondali, articolato in un trittico che corrisponde alle principali vie d’entrata nel golfo: Bocca Grande, Bocca Piccola – compresa tra Capri e Punta della Campanella, che collega il golfo di Napoli con quello di Salerno – e i canali settentrionali di Ischia e di Procida. Dalla Bocca Grande, mentre in superficie entrano la maggior parte dei navigli diretti al porto di Napoli, sotto lo specchio acqueo inizia un profondo canyon sottomarino che avvicinandosi alla costa si biforca a Y e forma due canyon secondari, il Magnaghi che arriva lambire l’isola di Procida e il Dohrn che arriva alla costa di Posillipo. La depressione marina al largo della collina posillipina è nota con il nome di ammontatura, termine dialettale e marinaresco che indica una “risalita”, una “rimonta” delle acque di profondità che determina un ricambio continuo delle acque, garanzia di sopravvivenza per l’ecosistema sottomarino del golfo, altrimenti decisamente aggredito dall’attività antropica.

La presenza del canyon determina la presenza di due sistemi di fondale, due distinti paesaggi marini: uno orientato verso sud est, dalla costiera sorrentina all’area vesuviana-sarnese, che si presenta come una piana detritico-fangosa (chiamata Napoli slope) e l’altro orientato verso i Campi Flegrei e le isole di Ischia e Procida, dal fondo accidentato costellato da numerose secche ed edifici vulcanici sommersi, presenti anche se in minor misura anche nel settore sud-orientale.

Ma la funzione del canyon è soprattutto quella di determinare il ricambio delle acque, detto upwelling, che trasporta l’acqua presente al largo fino in prossimità della costa rendendo il golfo uno dei luoghi marini con più alta biodiversità e capacità di resistere agli effetti dell’antropizzazione (inquinamento e pesca). L’acqua al largo, infatti, è composta da un insieme di masse[2] di diversa densità che scorrono impilate (la colonna d’acqua). Il golfo di Napoli è costituito per la maggior parte da acqua intermedia tirrenica; a quest’ultima va ad aggiungersi una discreta quantità di acqua intermedia levantina, che scorrendo in profondità è priva di inquinanti e ricca di elementi nutrienti. Quest’acqua si incanala nel canyon mescolandosi alla intermedia tirrenica e vivificandone la composizione fino a risalire presso la costa. La risalita di acque profonde (fenomeno caratteristico degli ambienti oceanici) innesca il processo detto di “magnificazione produttiva” delle reti alimentari che rende il golfo tra le aree più pescose del Mediterraneo.

La risalita di acqua tirrenica intermedia determina inoltre la dispersione dello strato d’acqua superficiale, che è quello con maggior tasso di inquinamento perché vi si innestano i reflui delle attività antropiche (scarichi fognari e industriali). Il sistema del canyon agisce come una “pompa” che trasferisce in superficie l’acqua pulita presente in profondità funzionando come una sorta di antinquinante naturale. Questo è il primo paradosso: la massa d’acqua presente nel golfo è sostanzialmente “non inquinata”, nonostante si tratti di un bacino chiuso sulle cui sponde si concentra un’elevata densità di insediamenti urbani e industriali.

In questo quadro la pressione antropica, insieme al particolare regime idrodinamico dell’area (correnti e venti), determina la formazione di alcune sacche in cui l’acqua di superficie (entro i 50 metri di profondità) risulta altamente inquinata: si tratta di zone più interne come la baia di Castellamare di Stabia dove sfocia il fiume Sarno (sebbene paradossalmente a meno di un chilometro dalla costa, esista il Banco di Santa Croce ovvero uno degli ultimi reef corallini del Mediterraneo); il litorale di San Giovanni, il porto commerciale di Napoli e la baia di Pozzuoli. La via sottomarina del golfo è insomma determinata da due sistemi idrogeologici: quello delle acque costiere superficiali, confinato e inquinato, e quello delle acque al largo (5 o 6 miglia dalla costa), interessato e vivificato dal fenomeno della risalita. L’uomo inquina non tanto il mare in sé quanto la zona in cui la propria fruizione (balneazione e pesca costiera) è più concentrata.

Paesaggi marini

La schizofrenia della geomorfologia dei fondali metropolitani emerge anche nella varietà di paesaggi marini, termine con cui si intende la composizione dell’ambiente in cui flora e fauna marina si sviluppano e interagiscono. Immergendosi verso i fondali prossimi all’area metropolitana troveremo quindi due paesaggi sottomarini prevalenti. La piana fangosa corrispondente alla cosiddetta Napoli slope, ovvero quell’area in cui il fondale si presenta ricoperto da sedimenti sempre più fangosi man mano che si procede verso il largo. A prima vista sembra un deserto sommerso, ma in realtà è popolato da “numerosissimi organismi che escono dai loro rifugi soprattutto di notte per nutrirsi della sostanza organica che piove dagli strati d’acqua più superficiali e si deposita sul fondo. Feci, residui di cibo, cadaveri dei piccoli organismi del fito e dello zooplancton dalla vita brevissima, spoglie di pesci pelagici piccoli e grandi […] vengono sminuzzati e predati da miliardi di vermi, molluschi, crostacei, echinodermi che a loro volta costituiscono alimento di pesci come sogliolo, rombi, passere di mare, razze, pastinache, merluzzi, cocci e triglie, molluschi come moscardini e seppioline e crostacei[3]”. Si tratta di quel pescato caratteristico delle paranze di pescatori che usano la tecnica dello strascico.

Oltre che attraversato da organismi riconoscibili come alimento umano il fondale sud-orientale è anche popolato, in direzione della Bocca Piccola, dove le correnti di fondo sono estremamente impetuose, da frammenti o esemplari ancora viventi di “madrepore, coralli, vermi serpulidi, molluschi gasteropodi e bivalvi, briozoi, crostacei cirripedi[4]”, che sembrano sassi inanimati ma sono in realtà ciottoli viventi poiché formati principalmente da alghe rosse (le melobesie). Insomma, una varietà inaspettata di vita che trova sviluppo proprio a partire da quelle sacche inquinate prossime alla linea costiera vesuviana particolarmente soggetta all’impatto antropico.

L’altro paesaggio prevalente è quello animato da una delle più ricche comunità biologiche composte da specie sessili (inesistenti sulla terra emersa), cioè organismi animali che si fissano sullo strato roccioso di profondità dando vita a un tappeto vivente di coralligeno. È un mondo che vive nell’ombra degli strapiombi del fondale prossimo a Capri e alle isole flegree di Procida e Ischia, così come in alcune secche più vicine alla linea costiera: “Spugne dalle diverse tonalità di rosso, giallo, blu, viola, arancio si accavallano e intersecano insieme alle delicate trine dei briozoi, ai pennacchi branchiali dei serpulidi, ai traslucidi tentacoli delle madrepore, alle cesellate conchiglie dei molluschi, alle colonie a ventaglio delle gorgonie e del corallo rosso[5]”. È un insieme di organismi animali da cui scaturisce un caleidoscopio di forme e sfumature che compongono una metropoli sottomarina in continua evoluzione, dal momento che gli organismi vivi ricolonizzano incessantemente quelle parti di roccia abbandonate dagli abitanti che concludono il proprio ciclo vitale.

Una ulteriore presenza vegetale che va a formare un paesaggio sottomarino specifico, è quella delle piante marine diverse dalle alghe (il vegetale marino predominante) che, a differenza di queste ultime, presentano radici, fusto, foglie e fiori. Sui fondali del golfo la pianta più diffusa è la Posidonia Oceanica, che si incontra nelle cosiddette praterie di Posidonia, fino a 50 metri di profondità. La sua presenza indica una particolare limpidezza delle acque, attraverso le quali può filtrare la luce solare e dar vita al processo della fotosintesi; contribuisce inoltre a rallentare l’erosione della costa provocata da onde e maree. Come le praterie e le foreste emerse, quelle di Posidonia sono distese dove si nascondono animali marini peculiari come i pesci ago e gli ippocampi (i cavallucci marini), così come specie pregiate di molluschi come i tartufi di mare assai ricercati sui banchi delle pescherie.

Le aree marine (non) protette

Dal 1982, anno di promulgazione della prima legge dello stato in materia di Aree marine protette (le prime due istituite nel 1986 in Sicilia e Friuli Venezia Giulia, non a caso due regioni a statuto speciale), il discorso sulla protezione dei fondali e dell’ecosistema marino è stato caratterizzato da resistenze legate a interessi di sfruttamento della risorsa mare in termini turistici e ittici. L’attività antropica nelle prossimità costiere è stata per lungo tempo incentrata sull’uso della battigia per la balneazione, lo sviluppo di porti turistici per il diporto privato, la pesca di medie dimensioni nonché lo scarico di residui di lavorazioni industriali o acque nere.

Nell’area metropolitana di Napoli sono state istituite, finora, quattro Aree marine protette, una  concentrazione unica in tutto il Mediterraneo, a testimoniare l’importanza – scientifica quanto naturalistica – del golfo: l’area di Punta della Campanella (Bocca Piccola) e il Regno di Nettuno (Ischia, Procida), altre due aree nella zona di Baia e l’isolotto della Gaiola, queste ultime anche parchi archeologici sottomarini caratterizzati da resti di antiche ville sommerse di epoca romana. In questo caso, la commistione tra patrimonio sottomarino e attività antropica assume forme peculiari perché si tratta di luoghi sommersi che hanno preservato tracce di edificazione umana grazie all’erosione della costa. La Gaiola, in particolare, è situata sulla costa della collina di Posillipo, in pieno territorio urbano, e ha subito un’elevatissima pressione antropica, tanto come (quasi) unico luogo di balneazione cittadino non assediato dalle concessioni ai privati (lidi), che come insistenza della pesca di frodo esercitata per decenni con il metodo della potassa, ovvero l’usanza dei pescatori di gettare in acqua del potassio, che se da un lato stordiva le prede pregiate facilitandone la cattura, dall’altro desertificava (anche se temporaneamente) la zona sottomarina interessata da tutti gli organismi viventi. Pesca di frodo che è stata esercitata (e lo è tutt’oggi) anche attraverso l’uso di esplosivo in tutto il golfo.

Nel febbraio del 2016 è iniziato dal golfo di Napoli un ampio progetto di studio e di ricerca imperniato sull’attività della nave oceanografica Minerva 1 del Cnr, impegnata nel rilevamento del livello di inquinamento da plastica, detriti e altre sostanze negli abissi marini. Il primo caso studio è stato proprio l’esame del canyon sottomarino Dohrn, che arriva a una profondità di 2.000 metri. Il progetto vuole definire gli effetti sul paesaggio marino dell’utilizzo dei fondali da parte dell’uomo come discarica per manufatti artificiali, un insieme che spazia dai rifiuti solidi urbani e industriali, all’arsenale bellico (bombe e munizioni) della seconda guerra mondiale, fino alle carcasse di automobili, batterie, nonché relitti di navi di stazza e tipologia diversa. Nel fondale prossimo al sito dell’ex Italsider di Bagnoli è possibile incontrare importanti residui delle lavorazioni siderurgiche e altre materie prime cadute in acqua durante i trasbordi via mare. Gli effetti della presenza di tali residui sono tuttora affievoliti dal fenomeno dell’upwelling, tuttavia in assenza di politiche di protezione e valorizzazione della risorsa mare l’attività umana rischierà, in un futuro non tanto remoto, di sovvertire anche il meccanismo di compensazione naturale delle acque del golfo.

[1] Russo G. F., “La cultura del mare nel Golfo dei Paradossi”, in Aa.Vv., Mare Nostrum, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012, pp. 66-79; la definizione di Golfo dei Paradossi è stata data la prima volta dal Prof. Russo nel numero 10 (anno IV), gennaio-aprile 1995 della rivista Scheria, Città del Sole, Napoli. In particolare nel saggio “Ambienti Marini del golfo di Napoli e dell’Isola d’Ischia: particolarità e paradossi”, pp. 58-72.

[2] Lo schema di stratificazione delle acque al largo del golfo comprende: acqua costiera superficiale, acqua tirrenica superficiale, acqua tirrenica intermedia, acqua levantina intermedia (così chiamata perché si forma al largo delle coste di Cipro e dell’isola greca di Rodi), acqua tirrenica profonda.

[3] Russo G. F., “Paesaggi Sottomarini del Golfo di Napoli” in Aa.Vv., Il Barocco napoletano dal mare del Golfo di Napoli, Massa, Napoli, 2010, p. 20.

[4] Ivi, pag. 21.

[5] Ibidem, p. 23.