Le politiche della partecipazione. Scampia

di Gilda Berruti, Maria Federica Palestino

La forza di Scampia nasce dall’abilità di una minoranza virtuosa di abitanti e operatori di attivare routine con effetti di cura nello spazio fisico, innescando forme di apprendimento che, radicandosi, hanno prodotto coinvolgimenti a catena.

Lo sforzo corale fatto da Scampia per trasformare creativamente la sua storia di “quartiere 167” va colto all’intersezione tra presidio attivo di spazi pubblici, forme di resistenza e mobilitazione dell’associazionismo, pratiche innovative di mediatori culturali radicati, tentativi di chi governa di interfacciarsi con una complessità intuita come ricchezza.

Per enfatizzare la forza del nesso tra spazio e società, così evidente a Scampia, proponiamo una lettura della sua evoluzione incentrata su due fuochi: la villa comunale, il più bello e fragile dei suoi spazi pubblici; le reti di cooperazione che l’hanno abitata e animata nel tempo. L’incontro tra agire virtuoso di abitanti e paesaggio in trasformazione della città pubblica ha dato vita a ciò che oggi, dopo avere attraversato diversi spaccati della società del quartiere, ci sembra di poter definire “modello Scampia”.

C’era una volta la villa

Davanti ai lotti L e M si trova la villa comunale di Scampia, dieci ettari di verde sottoposto al livello stradale, esito di un “errore generoso” originato dall’attuazione del programma straordinario di edilizia residenziale pubblica. Realizzato nel dopo terremoto, esso invertiva il ruolo centripeto che l’area centrale avrebbe avuto se si fosse attuato il centro di quartiere prescritto dal piano 167.

Posizione e ruolo della villa non sono da trascurare. Osservandone lo spazio si possono cogliere, nelle diverse fasi della sua evoluzione, indizi dello stato di salute del quartiere, degli stili di vita degli abitanti e dei modelli di governo degli amministratori. I comportamenti degli utenti del parco – di vandalismo o cura – denunciano la gamma di emozioni con cui ci si pone rispetto a quello che è considerato il salotto buono di Scampia.

La villa è stata aperta nel 1994, nello stesso anno in cui le Vele sono state dichiarate inabitabili dal comune di Napoli, dopo una fase in cui, completata ma non ancora fruibile, era stata oggetto di degrado precoce. L’apertura del parco è stata una mossa del sindaco Bassolino per contrastare il cosiddetto “nonsipuotismo[1]”.

Nel 1995 si approva il Piano di riqualificazione di Scampia[2] che risponde con interventi fisici al problema dell’inabitabilità delle Vele, prevedendo, a detta degli uffici comunali incaricati del progetto, insediamenti residenziali “più umani”. Tre anni dopo, la proposta formulata per il Contratto di quartiere, che non sarà finanziata, suggerisce come rivitalizzare gli spazi pubblici intorno alla villa.

A partire dal primo tentativo del 1997, tre delle sette Vele sono state demolite, mentre le altre, svuotate, si preparano allo stesso destino. La villa si è trovata quindi a delimitare un’area sospesa che ha perso le funzioni originarie restando a lungo oggetto di rivendicazione da parte del comitato di lotta degli abitanti. Anche per queste ragioni, in condizioni di abbandono e cattivo funzionamento, essa ha cominciato a soffrire del problema di mancanza di sicurezza.

La richiesta formulata dai gruppi locali, alle soglie del 2000, è di recintare il parco con una “cancellata intelligente”. Il Dipartimento di Urbanistica della Facoltà di Architettura di Napoli, consulente per il piano di riqualificazione, suggerisce una strategia fondata sulla sorveglianza naturale degli spazi, dislocando sedi per le associazioni a ridosso del lotto centrale e proponendo di curare la fascia di parco esterno per contrastare gli usi connessi al consumo di droga e al vandalismo. Inoltre, incoraggia la costituzione del coordinamento di associazioni “Piazziamoci”, nato per arginare la retorica della progettazione di nuove piazze contenuta nel piano, a favore della riqualificazione di piazze già esistenti[3].

Nell’immediato nulla accadde perché i tempi non erano maturi, né per l’attore pubblico, né per la comunità locale. Tuttavia, man mano, le condizioni di contesto sono cambiate e alcune azioni di presidio delle aree intorno alla villa si sono verificate spontaneamente: nel 2007, per esempio, il centro territoriale Mammut si è installato con gli operatori dell’associazione Compare in una struttura situata a nord del parco che, nel corso degli anni, si è trasformata da luogo consueto del consumo di droga a laboratorio di ricerca-azione con il quartiere. Nel 2014 il presidio del parco ha conquistato anche la terrazza sulla testata meridionale, affidata, insieme ai locali annessi, all’associazione Chi rom e…chi no per l’apertura del ristorante multiculturale Chikù, gestito dall’impresa sociale Kumpania. Nel corso del tempo, le Vele superstiti sono state riabitate, almeno temporaneamente; alcuni luoghi di stimolo – come la sede del doposcuola allestito dal Centro Insieme in uno spazio occupato della vela A2 – sono nati ai piani terra dei lotti.

Tra il 2010 e il 2011 la città è tornata a interrogarsi sul destino delle Vele, a partire dalla proposta della soprintendenza di conservarle, attivando una procedura di dichiarazione di interesse culturale. La proposta ha generato acceso dibattito[4], ma non azioni significative, se non la rinnovata richiesta del comitato degli abitanti delle Vele che, supportato dal sindaco de Magistris, ha sollecitato il governo centrale a cancellare definitivamente gli edifici simbolo del disagio.

Anche nel rivedere le linee di indirizzo per la riqualificazione del quartiere, alla luce del piano di fattibilità elaborato nel 2014 dal DiARC dell’Università Federico II, il comune di Napoli ha consultato il comitato come soggetto abilitato, dopo trent’anni di lotte, a ripensare Scampia in collaborazione con il pubblico. Su modi e forme dell’ascolto ci sarebbe da discutere. Qui preme evidenziare due aspetti: il primo riguarda il fatto che per la prima volta nella storia della 167 l’amministrazione ha ritenuto utile ascoltare il territorio; il secondo è che ha considerato il comitato delle Vele come portavoce unico delle diverse anime dell’associazionismo locale. Questa apertura all’ascolto, seppure esercitata in maniera incompleta, ignorando la complessità di un tessuto associativo che è andato oltre la rivendicazione dell’alloggio popolare, dimostra un cambio di ruolo nelle istituzioni: da dispensatrici di welfare, a facilitatrici dell’azione organizzata dei soggetti locali. A Napoli questo passaggio sta avvenendo in ritardo rispetto alle città italiane in cui le politiche integrate sono state avviate negli anni Novanta, e mostra non poche difficoltà di rodaggio.

Prove di riappropriazione della villa

Il parco pubblico di Scampia è oggetto, negli ultimi anni, di un esperimento di co-progettazione e gestione condivisa da parte di 19 associazioni e cooperative del quartiere che, insieme al DiARC[5], hanno costituito il partenariato “Valorizziamo Scampia”, guidato dalla cooperativa L’uomo e il legno. L’azione sulla porzione di verde interdetta alla fruizione pubblica, in prossimità dell’accesso da piazza Giovanni Paolo II, è finalizzata a fare vivere il parco non solo dal quartiere, ma dall’intera città.

Il partenariato nasce a valle di un tavolo di concertazione, inaugurato nel settembre 2012, che ha coinvolto tutte le associazioni del territorio, in attuazione del progetto “(Wel)fare Comunità a Scampia”, inserito all’interno del provvedimento denominato Patto per Scampia (decreto di giunta comunale n. 803 del 9 novembre 2012). Sia pure scontando gli imbarazzi tipici delle formule sperimentali, è il primo tentativo, supportato da una decisione presa in sede politica, di raccordare progettazione edilizia e politiche sociali. (Wel)fare Comunità a Scampia è, infatti, esito di un accordo tra comune di Napoli e Fondazione con il sud[6] per promuovere interventi mirati a migliorare la qualità della vita nel quartiere.

Nell’estate del 2013 il processo partecipativo ha avuto inizio. I partner hanno condiviso strategie per enfatizzare il ruolo catalizzatore della villa: farvi convergere gli eventi di cui le associazioni si fanno carico nelle routine del volontariato civile; coagulare, intorno al parco e al sistema di spazi che lo circondano, un insieme di prodotti creativi mirati a comunicare nuove “contro-immagini” virtuose; facilitare l’affidamento formale del parco da parte delle istituzioni.

Ottenere l’assegnazione della gestione della villa ha richiesto un impegno mirato e costante ma, alla fine, il risultato è stato raggiunto. A gennaio 2014 la rete Valorizziamo Scampia ha consegnato al comune una proposta per l’affidamento di un’area di 2,7 ettari nella testata nord della villa, inagibile per problemi di degrado funzionale da rimuovere con i lavori a farsi. La proposta è stata, non senza difficoltà, esaminata e accolta dal servizio “Qualità dello spazio urbano” (d.g.c. n. 507 del 17 luglio 2014). La convenzione di affidamento della villa al partenariato Valorizziamo Scampia è stata, infine, siglata a settembre 2014, per una durata di tre anni. In autunno sono iniziate le operazioni di pulizia e messa in sicurezza degli spazi, premessa necessaria alla riqualificazione dell’area. Tali lavori hanno coinvolto un nucleo di inoccupati di Scampia.

A chiusura del 2015 i lavori sono quasi terminati, e sono state avviate le attività per rivitalizzare la villa e renderla accessibile da piazza Giovanni Paolo II. È stata attivata la squadra di calcio femminile che usa il parco per i suoi allenamenti, si praticano settimanalmente il kundalini yoga e il fitwalk, si progettano laboratori di autocostruzione di strutture temporanee e azioni per rendere la villa più stimolante per gli utenti. Orti urbani sono stati piantumati grazie all’ostinazione dei gruppi locali. Al motto di “favorite” è iniziata la consuetudine di vivere la villa non solo la domenica.

L’esperimento di gestione partecipata è importante perché, nel valorizzare competenze e capacità di azione del quartiere, ha offerto una metodologia collaborativa intorno alla quale attore pubblico, abitanti, operatori locali e università sono stati chiamati a sperimentare nuovi modi di fare politiche per la città. Di fronte alla carenza di risorse pubbliche, gli uffici comunali hanno mostrato evidenti difficoltà ad abbandonare le consuete modalità di risposta settoriale a problemi che, al contrario, si presentano in forma complessa e non riducibile a competenze compartimentate. Basta pensare al tempo intercorso, a progetto partito, per ottenere l’affidamento in gestione della villa, e nonostante il regolamento per l’affidamento di spazi a verde pubblico prevedesse esplicitamente la responsabilizzazione dei gruppi locali.

Rispetto a questa prima esperienza, c’è bisogno che il pubblico si impegni a portare fino in fondo il nuovo ruolo di soggetto che abilita, cooperando affinché le modalità di resistenza di cui il contesto si avvale si trasformino in forme strutturate di esistenza. Senza questo passaggio, infatti, si rischia di disinnescare le energie dei gruppi locali. È la prima volta che a Scampia si riesce a co-progettare un’azione sugli spazi. Nel corso degli anni, diversi tentativi in questo campo, dall’empowerment del coordinamento Piazziamoci in poi, sono falliti o hanno preso una via diversa da quella definita in partenza.

La mobilitazione di seconda generazione

Non a caso la prima gestione partecipata di un così vasto spazio pubblico è stata sperimentata a Scampia. Si tratta, infatti, del quartiere dove più radicata è l’esperienza di pratiche partecipate con ricadute spaziali. Da oltre trent’anni il quartiere è abitato da minoranze virtuose che praticano forme di resistenza attiva, favorendo processi di mobilitazione con effetti di empowerment.

Nel corso del tempo la mobilitazione si è incanalata secondo alcuni percorsi principali: i linguaggi dell’arte di strada (Gruppo Risveglio dal Sonno-Gridas, dal 1981); le lotte per un’abitazione dignitosa (comitato delle Vele, dal 1985[7]); la pratica del calcio (Arci Scampia, dal 1986) e, più tardi, del judo (Star Judo Club Maddaloni); le conoscenze ambientali e la cultura della terra (La Gru di Legambiente, dal 1995).

Intorno a questi pianeti ruota una nebulosa di satelliti che hanno fatto da leva al gruppo storico[8]. Questa formazione di supporto è frutto di almeno due successive fasi di crescita. La prima intorno alla metà degli anni Novanta; la seconda a monte e a valle della faida di camorra del 2004[9]. Ci sono, inoltre, realtà locali, o nate in seno al quartiere, che si trovano tuttora in fase di consolidamento[10].

A schizzare una mappa, evidenziando il network di relazioni che ne sono discese nel tempo, senza omettere il ruolo di coloro che sono passati da un ambito di pratiche all’altro, bisognerebbe convocare una pluralità di soggetti laici e religiosi, portatori di forme diversificate di razionalità. D’altra parte, mai come oggi, Scampia dovrebbe fare quadrato intorno alla mappa delle risorse umane che l’hanno resa esemplare, allo scopo di raccontarsi oltre gli stigmi che ne hanno fatto una realtà estremizzata, manipolata senza rispetto. La questione dell’immagine però, oltre a essere delicata, è quanto mai complessa. Persino la faccia virtuosa del quartiere può prestarsi a degenerazioni retoriche, o fare da motore a forme di impresa costruite sullo sfruttamento del marchio Scampia[11].

Alla fase storica della resistenza organizzata, legata a leader come Felice Pignataro e Mirella La Magna, Vittorio Passeggio, mister Piccolo, Aldo Bifulco, fa seguito la seconda generazione di abitanti cresciuti all’ombra della mobilitazione, oggi trenta-quarantenni. Utenti privilegiati di pratiche partecipate fin dall’infanzia, oggi questi giovani hanno il compito di prendere il testimone dai padri, traghettando il modello Scampia anche oltre il quartiere. Tuttavia la seconda generazione, salvo eccezioni, è ancora schiacciata dall’influsso carismatico dei padri. I padri, dal canto loro, non intravedono, attraverso il varco aperto dal proprio volontariato, vie entro le quali fare incamminare in sicurezza i figli[12].

Eppure, dopo il 2004, e nonostante i riflettori siano rimasti accesi sugli intrecci di Gomorra, altre realtà – dall’offerta di beni confiscati alla criminalità organizzata, alle lotte contro la localizzazione della discarica di Chiaiano – hanno cominciato a spostare il baricentro degli interessi rispetto al fuoco della 167 e al tema della sua vivibilità. È in corso una dinamica territoriale che sta modificando, di Scampia, persino le radici culturali di quartiere popolare. La valorizzazione produttiva del Parco delle colline a nord di Napoli è, infatti, alla base di un processo di ri-territorializzazione che rovescia l’usuale geografia di Scampia come porta settentrionale della città[13]. Quartieri come Chiaiano, Piscinola e Scampia, estreme periferie di Napoli fino a qualche anno fa, vanno piuttosto guardati, oggi, come avamposti meridionali della Terra dei fuochi.

Tornando al volontariato elitario della prima generazione – incoraggiato dalla chiesa cattolica, prima con il supporto di un padre diocesano, approdato nel ’68 in un garage di Scampia, poi con l’arrivo dei gesuiti – sarebbe errato affermare che abbia subìto un arresto dopo il 2004. In realtà, il progetto di presidiare lo spazio pubblico con i linguaggi dell’arte, come pure la visibilità acquisita dal Carnevale del Gridas, dimostrano che la formula partecipativa di Scampia si è diffusa nell’ultimo decennio: paradossalmente, proprio quando cominciava il suo naturale declino.

Se una pecca c’è nel modello partecipativo in uso a Scampia, questa risiede nella scarsa capacità di comunicazione dei pionieri. Non a caso, la fama delle modalità creative con cui il quartiere ha a lungo condiviso i carnevali del Gridas è arrivata in città soltanto alle soglie del nuovo millennio. Non a caso, lo si deve soprattutto al lavoro di rete di insegnanti, operatori sociali e mediatori culturali provenienti dal resto della città.

Dal 2007 in avanti, gruppi di quartiere e operatori – locali e non – sono confluiti nel comitato cittadino per lo spazio pubblico con la volontà di intrecciare un dialogo, da Scampia, con le forze attive e propositive dei quartieri di Napoli e di fuori. Dialogo che, in continuità con la tradizione dei murales e dei carnevali, si è scelto di focalizzare sulla riappropriazione dei luoghi della città pubblica, a partire dalla condivisione di pratiche educative con ricadute visibili nello spazio[14]. È stato così che, alla confluenza tra i pionieri, la galassia dei gruppi di sostegno e gli operatori esterni, ormai radicati o sul punto di esserlo, Scampia si è finalmente accreditata come laboratorio cittadino di pratiche dal basso.

Declinazioni del modello Scampia

Una domanda a cui provare a dare risposte è se, e quanto, questo modello abbia insegnato, oltre che ai figli naturali, alla città: università, professionisti, funzionari pubblici, politici. Per ciò che riguarda l’impegno delle istituzioni cittadine a interfacciarsi con la cultura collaborativa del quartiere, si può dire che – relativamente alla realizzazione di edilizia sostitutiva delle Vele – la risposta pubblica sia stata di natura sostanzialmente populista. Si è ritenuto di eliminare parti consistenti del tessuto originario, senza tenere conto di operare entro un insediamento che è figlio dell’utopia urbanistica moderna[15].

Al di là dell’obiettiva difficoltà a governare la complessità del quartiere senza cadere in errore, la risposta tecnica alle battaglie del comitato delle Vele ha purtroppo gettato le basi per un piano di basso profilo culturale che, alle comprensibili richieste degli abitanti, ha risposto con un’accozzaglia di soluzioni tradizionali. Piuttosto che rigenerare l’originario impianto urbano, il progetto comunale ne ha stravolto il layout moderno, camuffandone il senso. Esemplare è la fragilissima cortina edilizia di via Gobetti, in totale contrasto con la potenza costruttiva dei cosiddetti “sette palazzi” che, svettando alle spalle, urlano vendetta dello scempio perpetrato.

Per quanto riguarda il processo di presa in carico di spazi e attrezzature pubbliche, cominciato dal Gridas con l’occupazione della palazzina del rione Monterosa, dove tuttora ha sede (e per la quale si è aperto un tardivo contenzioso con lo Iacp), esso nasce da una lunga fase di incomunicabilità tra abitanti e attore pubblico. Fino alle soglie del secondo millennio, infatti, era impossibile per un privato cittadino ottenere uno spazio pubblico in gestione, sia pure con l’intenzione di metterlo a servizio della comunità. La distanza tra istituzioni e residenti ha cominciato a ridursi sul finire degli anni Novanta con l’arrivo di giovani mediatori culturali interessati alle problematiche affioranti dalla convivenza tra abitanti e popolazioni rom di stanza a Secondigliano.

Dal 2000 in avanti, d’altra parte, l’escalation della faida per il controllo del mercato della droga, e la pubblicazione del romanzo Gomorra hanno portato Scampia all’attenzione internazionale. La fama del quartiere ha acceso l’interesse delle istituzioni che hanno intuito la convenienza a cavalcarne le pratiche virtuose. Il “risveglio dal sonno” delle amministrazioni locali è iniziato nel 2008 con il progetto di economia della cultura Punta Corsara, montato dall’assessorato alla cultura della Regione Campania sulla scia del preesistente triennio di teatro sociale del progetto Arrevuoto[16]. Recentemente, l’attenzione all’insieme di risorse creative che hanno originato il modello Scampia è cresciuta al punto da ispirare la formulazione della delibera nota come Patto per Scampia. Essa è descritta dalla giunta de Magistris come un investimento sul tessuto civico del quartiere teso a favorire il suo ritorno alla normalità.

Sebbene la seconda generazione faccia fatica a sostituirsi alla prima, o stia spostando il fuoco dei propri interessi altrove; sebbene l’amministrazione, pur puntandovi, abbia dimostrato di ignorare il tessuto sociale del quartiere; sebbene l’università, nella nuova versione di partner, trovi difficoltà a ritagliarsi un ruolo sostitutivo rispetto a quello di advocate di una volta, il modello Scampia può considerarsi tuttora promettente e vitale. Lo si deve al fatto che molti interlocutori se ne sono appropriati e, in diverse forme, stanno contribuendo, dall’interno o dall’esterno, a rivederlo, ossigenarlo e comunicarlo al resto della città. Vedremo più avanti con quali risultati.

* Questo saggio è frutto del lavoro congiunto delle autrici. Tuttavia i paragrafi 1 e 2 sono attribuibili a Berruti, 3 e 4 a Palestino.

[1] Cfr. Bassolino A., La Repubblica delle città, Donzelli, Roma, 1996.

[2] Il piano di riqualificazione era stato varato a valle della delibera del 1994 con cui il consiglio comunale di Napoli dichiarava l’inabitabilità di tali alloggi.

[3] Questi temi sono stati trattati nell’ambito della Convenzione per l’accompagnamento al Piano di riqualificazione delle Vele stipulata nel 1999 tra comune di Napoli e Dipartimento di Urbanistica della Facoltà di Architettura (responsabile scientifico prof. Vincenzo Andriello). Sul coordinamento “Piazziamoci”, cfr. De Muro P., Di Martino P., Cavola, L., “Fostering Participation in Scampia. Let’s make a Piazza”, in European Urban and Regional Studies, 14(3), 2007, pp. 223-237.

[4] Cfr. Berruti G., “Oltre le Vele di Scampia”, in Urbanistica Informazioni, 237, 2011, pp. 76-77.

[5] Chi scrive rappresenta il DiARC al tavolo partenariale.

[6] La Fondazione con il sud – ente privato che promuove l’infrastrutturazione sociale del Mezzogiorno – ha finanziato il progetto “Valorizziamo Scampia” con 475 mila euro.

[7] La nascita del comitato Vele si può far coincidere con l’incontro tenutosi l’1 marzo 1988 presso la sala Santa Chiara per illustrare il degrado delle Vele (colloquio con l’arch. Antonio Memoli, dicembre 2015).

[8] La mappa dei gruppi attivi a Scampia è continuamente monitorata dal soggetto più sensibile a comunicare il quartiere come prodotto di un’aspirazione collettiva al cambiamento. Cfr. Bifulco A., comunicazione al convegno Dacci oggi il nostro amore quotidiano, a cura dell’associazione Ore Undici, Trevi, 22-26 agosto 2014.

[9] Nascono negli anni Novanta le cooperative Obiettivo uomo e L’uomo e il legno, il Centro Hurtado, l’associazione Compare. Le associazioni Chi rom e…chi no, Dream team-donne in rete, la cooperativa Resistenza e l’associazione Vodisca vedono, invece, la luce dal 2000 in avanti.

[10] Tra queste ricordiamo le associazioni Centro Insieme, Pollici Verdi e Arrevuoto.

[11]  Cfr. Palestino M. F., “Esplorare lo stigma”, in Immaginazioni. Materiali per costruire strategie promozionali inclusive, Clean, Napoli, 2012, pp. 54-80.

[12] Queste impressioni sono esito dei colloqui con Aldo Bifulco e Rosario D’Angelo del circolo La Gru di Legambiente, e con Patrizia Palumbo di Dream team-donne in rete (giugno-luglio 2015).

[13] Sulla lettura di Scampia come porta cfr. Braucci M., Zoppoli G., Napoli comincia a Scampia, l’ancora del mediterraneo, Napoli, 2005.

[14] Vedi anche: Zoppoli G. (a cura di), Come partorire un mammut (e non rimanere schiacciati), Marotta e Cafiero, Napoli, 2011.

[15] Cfr. Lepore D., “Il dovere di andare avanti”, in Castagnaro A., Lavaggi A. (a cura di), Le Vele di Scampia che fare?, Giannini, Napoli, 2011 pp. 74-80.

[16] Cfr. Palestino M. F., “Creativity as a strategy to recover: learning from Scampia”, in International Journal of Sustainable Development, 12 (2/3/4), 2009, pp. 264-274.