La scuola e le politiche dell’istruzione

di Emiliano Grimaldi

Nel dibattito pubblico la scuola napoletana viene dipinta spesso come una istituzione in difficoltà. Come e più che in altre aree del paese, essa sembra non riuscire ad assolvere la sua funzione (sia essa definita in chiave socialdemocratica in termini di equità e formazione alla cittadinanza o neoliberale in termini di creazione di capitale umano di qualità), né fronteggiare una serie di sfide “storiche” (si pensi al contrasto della dispersione scolastica) o rispondere a nuovi bisogni educativi che nascono dalle più ampie trasformazioni culturali, demografiche ed economiche.

A conferma di una lettura di questo tipo, il Rapporto annuale 2015 dell’Istat, nell’offrire una mappa ragionata dell’Italia contemporanea, inserisce la conurbazione napoletana insieme ad altre realtà urbane meridionali in un insieme dal titolo eloquente, I territori del disagio, a seguito della rilevazione di “connotazioni socio-economiche fortemente critiche, in particolare per quanto riguarda gli indicatori del livello di istruzione della popolazione e del mercato del lavoro[1]”. In questi territori, l’intreccio e la concentrazione del disagio economico, educativo, socio-sanitario e abitativo in alcune fasce della popolazione e in alcune aree urbane producono una progressiva accentuazione delle diseguaglianze e l’acuirsi delle forme di esclusione, soprattutto nei ceti sociali più svantaggiati.

Si potrebbe discutere a lungo di quanto una tale rappresentazione renda giustizia a un sistema locale di istruzione che, a fronte della complessità delle sfide a cui è chiamato a rispondere, ha dato nel tempo segnali di grande vitalità, testimoniati dall’attivismo delle comunità professionali di insegnanti e dirigenti e dalla realizzazione, fin dagli anni Settanta, di alcune tra le più interessanti esperienze di sperimentazione educativa nel panorama italiano. Quel che è indubbio è che ci troviamo di fronte a un sistema con forti criticità, acuite dalle politiche di austerità che negli ultimi anni hanno ridotto le risorse umane e finanziarie a disposizione delle scuole della città.

L’obiettivo di questo intervento è, innanzitutto, di fornire una fotografia della scuola napoletana, con riferimento alle dimensioni dell’utenza e all’offerta formativa. Nel far ciò si farà riferimento, a seconda dell’opportunità, a dati relativi al solo territorio comunale o all’area provinciale. A partire dai dati disponibili su livelli di istruzione, apprendimenti e dispersione, si cercherà poi di delineare un quadro in merito all’efficacia e all’equità del sistema. La parte conclusiva è dedicata al tentativo di individuare alcuni nodi critici sui quali riflettere per ripensare le politiche educative per la città (e non solo).

Domanda di istruzione e offerta formativa

Napoli e soprattutto il suo territorio provinciale continuano a essere aree “giovani”, dove la percentuale della popolazione in età di obbligo scolastico 0-14 sul totale dei residenti mantiene livelli sensibilmente più alti della media nazionale (rispettivamente 15,4% e 16,6% a fronte di una media nazionale del 13,9%) (cfr. Tabella 1). Questo dato appare significativo se si considera la relativamente bassa presenza di immigrati a cui in altre aree geografiche del paese è, invece, attribuibile parte rilevante della crescita demografica. Detto ciò, anche l’area napoletana presenta nell’ultimo decennio, in linea con quanto accade in molte aree del paese, una dinamica di contrazione della popolazione 0-14 in termini di valori assoluti (circa 20 mila unità in meno a Napoli dal 2002 al 2014 e circa 72 mila in meno nella provincia), una decrescita dell’indice di natalità e un progressivo aumento dell’età media.

Le rilevazioni Istat sulla popolazione consentono di stimare la potenziale utenza per l’anno scolastico 2014/2015 delle scuole (pubbliche e private) in 197.020 studenti nella sola città di Napoli e in 672.017 studenti sul territorio provinciale (cfr. Tabella 2). Sia nella provincia che nel capoluogo, l’utenza potenziale si concentra nei segmenti dell’istruzione primaria (circa 26%) e secondaria di II grado (circa 28%), mentre, coerentemente con le dinamiche demografiche degli ultimi anni, si osservano valori più bassi nei segmenti relativi ai nidi e alla scuola dell’infanzia.

A fronte di questi dati, le stesse rilevazioni Istat indicano in 584.375 il totale degli iscritti nelle scuole pubbliche e private (infanzia, primaria e secondaria di I e II grado) del territorio provinciale nell’anno scolastico 2013-2014, con una tendenza decrescente che segnala una diminuzione in termini assoluti di 16.170 studenti nel quadriennio 2010-2013 (il 2,7%). Nel 2013-2014 circa l’87% degli iscritti frequenta la scuola pubblica e il 13% quella privata, con percentuali che si presentano pressoché costanti nel periodo preso in considerazione.

L’incrocio tra i dati Istat e i dati riportati nelle delibere regionali sulla programmazione consente di delineare i principali tratti dell’offerta formativa sul territorio provinciale di Napoli. Prendendo in considerazione i dati relativi alle sedi di erogazione del servizio e agli indirizzi formativi presenti sul territorio nel quadriennio 2010-2013 si osserva una sostanziale stabilità dell’offerta complessiva pubblica e privata (da 2.889 sedi di erogazione nel 2010 a 2.914 nel 2013). Nel settore pubblico, si è assistito però negli ultimi anni a una considerevole diminuzione del numero di autonomie scolastiche (per esempio, –57 nella provincia nel passaggio dal 2011/2012 al 2012/2013), come effetto del dimensionamento della rete territoriale e dei tagli imposti dalle politiche di austerità. Sono diminuite le scuole dell’infanzia e le primarie (anche per effetto delle spinte verso la “comprensivizzazione”), mentre sono in leggero aumento le sedi di erogazione di istruzione secondaria di I grado e soprattutto II grado. Quest’ultima ha una matrice prevalentemente liceale (43,3%) e tecnica (36,5%), mentre l’istruzione professionale rappresenta il 20,2% degli indirizzi offerti. I dati diacronici indicano nel quadriennio 2010-2013 una sostanziale stabilità del segmento professionale e una crescita degli indirizzi liceali e soprattutto degli indirizzi tecnici.

Alcuni dati interessanti emergono se si guarda al campo dell’offerta privata (parificata e non). Va innanzitutto notato come le sedi di erogazione del servizio private rappresentino, in maniera costante, circa il 36% del totale nel quadriennio preso in considerazione. La configurazione dell’offerta privata è stabile in tutti gli ordini di scuola, con l’eccezione di una crescita del 13,3% nel segmento dell’istruzione secondaria di II grado. Essa si concentra nei segmenti dell’infanzia (circa il 45% del totale nella provincia) e dell’istruzione secondaria di II grado (39% del totale).

Uno sguardo ai dati disaggregati per ordine di scuola (cfr. Tabella 3) mostra con chiarezza come l’offerta privata risponda prevalentemente a bisogni di istruzione che riguardano il segmento della scuola dell’infanzia (il 25,4% degli iscritti nel 2013) e della primaria (il 14,8% nel 2013), sebbene non sia irrilevante la percentuale di iscritti nel segmento secondario superiore di II grado (8,7% nel 2013).

È in questi due segmenti, e ancor più nel segmento relativo alla fascia di popolazione 0-2, che il settore privato sembra rispondere a bisogni educativi e di cura che la scuola pubblica non riesce a soddisfare interamente (si pensi che nel comune di Napoli sono presenti 44 sedi di erogazione del servizio nido, con un’utenza complessiva di 1.704 bambini a fronte di 27.124 residenti in quella fascia d’età nel territorio comunale). L’ultimo dato ufficiale comparabile, risalente al 2012, indica che solo il 2,5% dei bambini in età 0-2 ha usufruito dei servizi pubblici per l’infanzia a fronte di una media nazionale del 13,5%[2].

Nel periodo preso in considerazione, le politiche di austerità hanno colpito anche sul territorio napoletano l’organico della scuola statale, la cui dotazione di insegnanti ha visto un decremento dal 2010 al 2013 sull’intero territorio regionale del 2,53% (2.343 unità in valore assoluto). I tagli delle cattedre, proporzionalmente distribuiti tra le diverse province, hanno interessato soprattutto i segmenti dell’istruzione primaria e secondaria di II grado (rispettivamente –5,59% e –4,54%) e solo in misura minore la secondaria di I grado (–0,8%). Il segmento dell’infanzia ha beneficiato, invece, di una dinamica positiva (+6,1%).

Livelli di istruzione ed esiti scolastici

La fotografia che emerge dai dati su domanda e offerta di istruzione è quella di un sistema locale caratterizzato da un calo progressivo dell’utenza potenziale ed effettiva e da una corrispondente contrazione, sul piano quantitativo, dell’offerta formativa, che però appare completa e articolata, soprattutto in alcuni segmenti, intorno a una complementarietà tra pubblico e privato. Questo quadro evidenzia già alcuni nodi problematici, tra tutti l’incapacità del settore pubblico di rispondere alla domanda nella fascia di popolazione 0-2 e il taglio degli organici delle scuole, concentrato in alcuni segmenti dell’offerta (primaria e secondaria di II grado).

Un bilancio sullo stato di salute del sistema dell’istruzione napoletano non può prescindere, però, da un ulteriore affinamento di questa fotografia che passa per la lettura di alcuni indicatori, pur parziali, dell’efficacia ed equità del sistema (livelli di istruzione, dispersione, apprendimento). Il recente Rapporto UrBes 2015 presenta dati interessanti in tal senso, incrociando le fonti Istat, Miur e Invalsi su accesso ai servizi, livello di istruzione della popolazione ed esiti scolastici. Ne emerge un quadro che presenta diverse criticità, in parte lascito di eredità storiche di medio e lungo corso, nel quale Napoli e la sua provincia si collocano sistematicamente nell’area dello svantaggio rispetto alle altre aree del paese.

Il primo insieme di dati (cfr. Tabella 4) descrive un sistema comunale che mostra evidenti difficoltà nell’innalzamento del livello medio di istruzione della propria popolazione. Nel 2011 (ultimo censimento) la percentuale di persone residenti a Napoli in età 18-24 che non possedevano un titolo di studio superiore alla licenza media e che non erano inseriti in un programma di formazione si attestava al 27,6% a fronte di una media nazionale del 18,1%.

Nel 2001 il divario tra dato comunale e nazionale era più contenuto (6 punti percentuali a fronte dei 9,5 del 2011). Più bassa rispetto alla media nazionale era, nel 2011, anche la percentuale di persone tra i 25 e i 64 anni che avevano completato almeno la scuola secondaria di II grado (50,7% a fronte di una media nazionale del 57,6%). In questo caso il dato è ancora più significativo se letto in chiave diacronica. Nel 2001 la percentuale era del 44,1% a fronte di una media nazionale del 43,0%. Sebbene si sia assistito dunque a una crescita del livello di istruzione medio, tale crescita si rivela molto più lenta di quanto avvenga mediamente nel resto del paese. Questo quadro, non certo incoraggiante, si completa se si guarda al dato sui NEET (Not in Education, Employment or Training): nel 2011 il 42% dei residenti a Napoli in età 15-29 non era né occupato né impegnato in un percorso di istruzione e/o formazione, a fronte di una media nazionale del 22,5% (rispettivamente 48,6% e 24,6% nel 2001); di questi, circa il 40% aveva conseguito appena la licenza media[3].

La fotografia che emerge dalla Tabella 4 necessita di alcuni chiarimenti. Se da un lato, i dati relativi agli anni successivi al 2011 confermano le tendenze appena descritte, va specificato che le indagini compiute dagli osservatori istituzionali sulla dispersione scolastica a Napoli negli ultimi anni restituiscono uno scenario nel quale l’evasione (non ottemperanza dell’obbligo scolastico) ha percentuali molto basse, con pochissime punte di disagio concentrate in alcune zone svantaggiate della città[4]. Il fenomeno della dispersione si concentra, invece, nel passaggio dal primo al secondo segmento dell’istruzione secondaria e, soprattutto, nei primi anni dell’istruzione professionale.

Se questo primo set di dati testimonia di un sistema locale diseguale che non riesce a contrastare, in alcuni suoi segmenti, alti livelli di dispersione, abbandono e uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione, elementi critici emergono anche dai dati sugli apprendimenti. Non appare questa la sede per entrare in una controversia, di non facile soluzione, sulla capacità dei dati Invalsi e delle altre large scale assessment surveys come Ocse-Pisa, Timss e Pirls di offrire una rappresentazione adeguata della complessità e della qualità dei processi di apprendimento. Certo è che i dati disponibili su competenze alfabetica (literacy) e numerica (numeracy) indicano sistematicamente:

  • una situazione deficitaria nelle scuole del napoletano, con livelli di competenza che si situano, soprattutto per la numeracy, al di sotto della media nazionale e una tendenziale difficoltà a raggiungere gli obiettivi di apprendimento contenuti nelle Indicazioni nazionali per il curricolo del Miur;
  • un sistema che incontra maggiori difficoltà nei segmenti dell’istruzione secondaria, con deficit di apprendimento che pur si manifestano a livello di scuola primaria, ma che si acuiscono al termine della scuola secondaria di I grado;
  • un sistema che, al netto delle differenze nei livelli di competenza in ingresso, non riesce lungo la sua filiera a recuperare gli squilibri di partenza e a garantire a molti alunni il raggiungimento di livelli adeguati di competenza.

L’analisi diacronica dei dati sugli apprendimenti testimonia, inoltre, di alti livelli di varianza interna alle scuole (cioè distanze considerevoli nei risultati ottenuti dalle classi di una stessa scuola) e di una rilevante differenziazione tra licei e indirizzi tecnici e professionali per la secondaria di II grado. Anche qui emerge, dunque, un sistema locale che non solo ottiene risultati peggiori della media nazionale, ma si mostra fortemente polarizzato e iniquo al proprio interno, allocando in maniera diseguale le opportunità educative.

Ripensare le politiche

I dati sugli esiti scolastici a Napoli sembrano, dunque, confermare l’immagine di una istituzione in crisi. Eppure chi vive e conosce la scuola a Napoli sa che il quadro non è così monolitico come potrebbe sembrare e che il vissuto delle scuole è fatto di impegno, competenza e passione di una parte rilevante del corpo docente e di un continuo alternarsi di successi e insuccessi, a fronte di sfide educative la cui complessità tende a crescere. Probabilmente, la rappresentazione più corretta è quella di un sistema caratterizzato da luci e ombre, ma vitale e capace di esprimere punte di eccellenza ampiamente riconosciute. Nella sezione conclusiva, si proverà a enucleare alcuni spunti di riflessione sullo stato di salute della scuola napoletana e sulle linee strategiche da perseguire per ovviare alle sue debolezze e accrescerne equità ed efficienza.

  1. Più risorse, ma spese meglio

L’insufficienza dell’offerta in alcuni segmenti e i dati sui tagli al personale docente costituiscono segnali di un deficit di risorse. Per avere una misura della rilevanza di questo punto basta guardare allo stato dell’edilizia scolastica a Napoli, del tutto inadeguata, e alle dotazioni infrastrutturali delle scuole, anch’esse mediamente inadeguate, soprattutto nel caso dei tecnici e dei professionali il cui specifico didattico è ad alto contenuto tecnologico. Allo stesso tempo va riconosciuto che da più di un decennio il sistema scolastico cittadino beneficia delle risorse aggiuntive messe a disposizione dai fondi strutturali europei. Il Rapporto Censis 2013 sulla crisi sociale del Mezzogiorno offre dati puntuali sul fatto che la spesa pubblica espressa in % sul Pil destinata al meridione risulti significativamente più elevata di quella destinata alle altre aree del paese. In tal senso, sembra esistere un problema collegato, da un lato, alla mancanza di una strategia politica nazionale e locale che sia in grado di garantire allocazione dei fondi più mirata e, dall’altro, una incapacità del sistema politico locale di impegnare e spendere i fondi a disposizione.

  1. La scuola ridiscuta le proprie fondamenta

Dove intervenire allora? Sembra scontata la necessità di investire sui segmenti più scoperti, come i servizi per l’infanzia, ma si potrebbe ragionare anche sul modo di orientare la spesa su tutti i segmenti del sistema in una diversa prospettiva.

In seguito alle pressioni provenienti dalle politiche europee e nazionali, la spesa sull’istruzione negli ultimi anni vede un progressivo concentrarsi delle risorse, pur insufficienti, intorno all’acquisto di tecnologie, agli interventi per recuperare gli squilibri nelle competenze di base e, in misura minore, all’arricchimento dell’offerta formativa extra-curriculare. Quel che resta in gran parte invariato, e non problematizzato in maniera adeguata, sono le fondamenta del fare scuola: gli aspetti curriculari, pedagogici, valutativi e materiali della pratica educativa e, in maniera collegata, la formazione iniziale e in servizio dei docenti.

Eppure, uno sguardo alla quotidianità del fare scuola mostra che, senza ignorare il ruolo cruciale giocato dai fattori di contesto, è l’assetto complessivo (didattica frontale, pedagogia trasmissiva, impianto valutativo di tipo selettivo/punitivo, curricula poco ancorati all’esperienza degli alunni, per fare solo alcuni esempi) che gioca un ruolo importante nel creare quelle forme di disaffezione verso l’istruzione come fattore di mobilità sociale che sono sempre più diffusi di quanto i dati su dispersione e abbandono lascino intravvedere, anche tra gli studenti delle classi medie e soprattutto in un contesto come quello napoletano a bassa domanda occupazionale.

Gli sforzi di ripensamento che le comunità professionali producono in forma spontanea, pur dando vita a esperienze di rilievo, non riescono a tradursi in innovazioni durature e di sistema, sia pure al livello locale. Sarebbe interessante, in tal senso, ragionare sulle possibilità che il sistema locale dell’istruzione ha di orientare in maniera mirata i flussi di spesa verso un rinnovamento della pratica educativa a partire dai suoi assunti curriculari, pedagogici e valutativi. Ciò significherebbe investire sugli spazi e le tecnologie dell’istruzione, ma anche e soprattutto sulla formazione continua delle comunità professionali.

  1. La scuola non può essere lasciata sola

I problemi di cui si discute (dispersione scolastica, insuccesso formativo, diseguaglianze educative, bassi livelli di competenza) sono riconducibili a un insieme di concause che pertengono a diverse sfere della vita sociale, economica e culturale. Ne consegue che qualsiasi strategia politica efficace debba articolarsi intorno a interventi non settoriali, che puntino sull’azione sinergica di diverse istituzioni (la scuola tra queste). Come pretendere che la scuola motivi studenti e famiglie a investire nell’istruzione come strumento di mobilità sociale in assenza di un adeguato riscontro in termini occupazionali a causa di un mercato del lavoro asfittico? Sebbene il tema sia da tempo al centro dell’agenda politica, il nodo dell’integrazione tra politiche dell’istruzione e del welfare, formazione e lavoro è ancora tutto da affrontare e le politiche educative, soprattutto nel meridione, “navigano a vista, non essendo sostenute e indirizzate da chiare strategie di sviluppo economico, sociale e culturale[5]”. Emblematica in tal senso, nel contesto campano e napoletano, è l’atavica debolezza (qualcuno direbbe assenza) di un sistema di formazione professionale efficace, nonostante le ingenti risorse messe a disposizione dai fondi strutturali negli ultimi quindici anni.

  1. Dove vanno le politiche educative in Italia?

Le politiche educative promosse su scala nazionale negli ultimi decenni non sembrano aver aiutato la scuola napoletana. Al di là degli effetti delle politiche di austerità in termini di contrazione delle risorse, vale la pena sottolineare come molte delle “riforme epocali” annunciate e poi implementate a partire dalla fine degli anni Novanta, dall’autonomia berlingueriana, passando per le riforme Moratti e Gelmini fino alla Buona Scuola renziana, stiano nei fatti spingendo il sistema in direzione opposta a quella dell’equità e dell’inclusione.

Due sono i tratti di questa “ristrutturazione” della scuola italiana che paiono particolarmente rilevanti. Il primo riguarda la progressiva sedimentazione di un meccanismo di regolazione della scuola ispirato a una logica di quasi-mercato. Le scuole sono sempre più spinte, in seguito all’effetto cumulativo di diverse scelte politiche (per esempio: liberalizzazione delle platee scolastiche, soglie minime di iscritti per il mantenimento dell’autonomia), a entrare in competizione le une con le altre per attrarre iscritti. Diverse sono, inoltre, le pressioni culturali che insistono sulle scuole e che spingono dirigenti e comunità professionali ad adottare vere e proprie strategie di marketing per promuovere la propria offerta formativa e, in maniera speculare, le famiglie a esercitare il proprio diritto di scelta nel selezionare la scuola “migliore” per i propri figli (opzione esercitata perlopiù dalle classi medie e medio-alte). A ciò si aggiunge una seconda trasformazione di sistema che riguarda l’attenzione crescente alle performance degli studenti, misurate attraverso strumenti standardizzati e utilizzate come indicatori di qualità e come strumenti di valutazione delle scuole, dei dirigenti e degli insegnanti, a cui agganciare meccanismi premiali e/o sanzionatori. Questa svolta valutativa si accompagna a una progressiva marginalizzazione del discorso pedagogico e a uno spostamento di attenzione dai temi dell’equità e dell’inclusione a quelli dell’efficienza e dell’efficacia (misurate, per esempio, in termini di miglioramento dei risultati) e/o del merito. Le spinte istituzionali suggeriscono non solo di impegnarsi per attrarre iscritti, ma anche di lavorare sull’attrazione degli iscritti con le migliori potenzialità.

Non è difficile immaginare quali possano essere nel medio e nel lungo periodo gli effetti di queste scelte. Non saranno certo quelli di favorire politiche ispirate a obiettivi di equità e di sostegno ai più deboli. Al contrario, è ragionevole supporre che, soprattutto in contesti già fortemente segmentati come quello napoletano, si tradurranno in un inasprimento dei processi di selezione e segregazione che già operano a livello locale e quindi in una progressiva crescita delle diseguaglianze educative

[1] Istat, Rapporto annuale 2015. La situazione del Paese, Roma, 2015 p. 46.

[2] Istat, Rapporto UrBes 2015. Il benessere equo e sostenibile nelle città, Roma, 2015.

[3] Censis, La crisi sociale del Mezzogiorno, Roma, 2013.

[4] www.comune.napoli.it/evasionescolastica.

[5] Censis, cit., p. 31.