L’abitare difficile dei rom

di Francesca Saudino

I rom a Napoli ci sono da tempo. A parte quelli autoctoni, i napulengre, che vivono principalmente in provincia, ci sono i rom provenienti dalla ex Jugoslavia, presenti fin dagli anni Ottanta, ma arrivati in numero consistente in seguito alle guerre degli anni Novanta. Infine, ci sono i rom provenienti dalla Romania. Questi ultimi si sono spostati quando la Romania ha semplificato le pratiche per il rilascio del visto e poi, in parte, in seguito all’ingresso della Romania nell’Unione Europea. Questa diversità si riflette anche sulla posizione giuridica delle persone: italiani i primi, extracomunitari i secondi, comunitari i terzi.

La popolazione rom a Napoli e provincia si attesta, come per il resto d’Italia, intorno allo 0,22-23% della popolazione locale. Tuttavia si tratta di ipotesi approssimative. L’unico dato certo è quello del censimento effettuato nel 2008, quando il governo Berlusconi emanò le ordinanze emergenziali in Campania, Lazio e Lombardia. In quell’occasione le prefetture – insieme con le questure e la Croce Rossa – organizzarono un censimento dei campi rom, con tanto di rilevazione delle impronte digitali. Si registrarono 2.754 persone (di cui 1.419 minori) nella provincia di Napoli, ma da subito fu evidente che non si trattava di un dato reale, in quanto tutti quelli che temevano la rilevazione delle impronte a causa di precedenti penali, non si presentarono. Inoltre, non tutti i rom vivono nei campi. Il dato nazionale, infatti, riferisce di circa 180 mila persone, di cui solo un quarto, circa 40 mila persone, vivono in condizioni di disagio abitativo, nei campi e non solo; tutti gli altri vivono in appartamenti. Pur essendo molto difficile dare numeri, in considerazione di un conteggio molto approssimativo nel solo comune di Napoli possiamo ipotizzare tra le 3 mila e le 4 mila persone. Di seguito vedremo come sono dislocate sul territorio.

Dove vivono

A Napoli ci sono tre tipologie abitative per i rom: gli appartamenti; i campi spontanei non autorizzati; i campi attrezzati e le strutture di accoglienza predisposte dal comune.

Sui rom che vivono negli appartamenti non esistono dati sulla Campania e su Napoli. Da una ricerca del 2012[1] emerge che la maggior parte risiede nell’area del centro storico (via Tribunali, Forcella, via Cirillo, via Foria, rione Sanità) e che le case sono piuttosto piccole, simili come tipologia a quelle prese in affitto da alcuni gruppi di immigrati o dagli stessi napoletani in condizioni di estremo svantaggio socio-economico. Nell’area della provincia non abbiamo alcuna rilevazione precisa ma abbiamo conoscenza di alcuni nuclei di rom italiani che vivono nella zona di Afragola.

Poi ci sono gli insediamenti spontanei, situati in luoghi spesso insalubri, circondati da rifiuti o comunque in condizioni igienico-sanitarie difficili. Le persone vivono in abitazioni auto-costruite, per lo più baracche o simili, con accesso precario alla corrente elettrica e all’acqua, quest’ultima in alcuni casi fornita dal comune. I più numerosi sono, nel comune di Napoli, quelli nei quartieri di Scampia, Gianturco e Barra. A Scampia, il campo in via Cupa Perillo esiste da circa venticinque anni e vi abitano circa 800 persone, prevalentemente di area balcanica, con un’esigua presenza di romeni e bulgari. Nel campo di Gianturco, negli ultimi quattro anni si sono riversati gli abitanti di altri insediamenti spontanei che sono scomparsi (Ponticelli, svuotato a seguito del rogo del 2008; viale della Maddalena, anch’esso oggetto di incendio; via del Riposo, dove vivevano fino al 2014 circa 400 persone e che fu oggetto di una rivolta della popolazione napoletana che portò all’allontanamento delle persone). Infatti, se nel 2012 vi abitavano all’incirca 250 persone, attualmente il campo conta più di 1.500 persone. A Barra c’è un insediamento storico, dove vivono circa 300 persone. Sia a Gianturco che a Barra vivono rom provenienti dalla Romania. Infine, alcuni rom sono rimasti nell’area di Ponticelli dopo il rogo. Allargando lo sguardo alla provincia, molti paesi hanno un nucleo di rom in insediamenti spontanei: ad Afragola ce ne sono due, di cui uno molto piccolo dove vivono circa trenta rom, in parte italiani e in parte provenienti dall’area balcanica, che si è parzialmente incendiato a febbraio 2015; a Casoria c’è uno storico insediamento dove vivono rom provenienti dalla ex Jugoslavia; a Torre del Greco e Torre Annunziata ce ne sono altri, in quest’ultima città vivono rom provenienti dalla Romania.

Le strutture autorizzate predisposte per soli rom dal comune di Napoli sono due: il cosiddetto Villaggio di Secondigliano e la struttura di accoglienza nella ex scuola “Grazia Deledda” a Soccavo. Il primo venne allestito nel 2000. Ufficialmente denominato “Villaggio della solidarietà”, è situato in via della Circumvallazione esterna, alle spalle del carcere di Secondigliano, dove vennero trasferiti i rom presenti nell’insediamento spontaneo di via Zuccarini, nei pressi della stazione della metro di Piscinola. Il Villaggio è costituito da 92 container con servizi igienici esterni, fornitura d’acqua, allaccio di gas ed elettricità. In questo campo autorizzato risiedono circa 700 persone, prevalentemente rom provenienti dai Balcani, di cui circa la metà sono minorenni e il 10% ha meno di 2 anni d’età. La collocazione su una strada provinciale a scorrimento veloce e sprovvista di collegamenti (autobus o altro), favorisce la marginalità sociale e il divario con il vicino quartiere.

La struttura di accoglienza nella ex scuola Deledda a Soccavo, poi denominata Centro comunale accoglienza di supporto territoriale, nacque nel 2005 per dare alloggio ad alcune famiglie rom residenti in un campo abusivo nel quartiere Fuorigrotta e per fronteggiare il flusso migratorio di rom romeni che si intensificò a partire dal 2000. Ospita circa 120 persone in quelle che erano le aule scolastiche. Gli abitanti della struttura sono prevalentemente romeni di Calarasi. Da una visita effettuata con la delegazione Osce nel 2008 si osservò che ogni aula era abitata da circa due nuclei familiari, senza uso cucina. Dalla rilevazione effettuata nel 2012[2], inoltre, si appurò la presenza costante delle medesime famiglie da dieci anni, senza l’avvio di alcun progetto di uscita. Allargando lo sguardo all’area metropolitana, oltre quelli menzionati, esiste un insediamento costruito dall’ente pubblico a Caivano e due a Giugliano in Campania, dove vivono rom provenienti dall’area balcanica. Quelli citati sono complessivamente gli interventi abitativi predisposti dalle istituzioni pubbliche in tutta la Campania.

Le politiche locali

Dagli esempi citati emerge un quadro piuttosto chiaro dell’indirizzo politico locale sulla questione rom. L’amministrazione comunale ha alternato periodi di abbandono, a periodi in cui ha individuato soluzioni tampone emergenziali, che poi sono diventate di precarietà definitiva. Le ragioni addotte hanno spesso fatto riferimento all’assenza di denaro disponibile.

L’assenza di risorse da spendere per avviare percorsi di inclusione dei rom è confutata da esempi concreti che mostrano invece l’uso di denaro pubblico per mantenere la condizione di emarginazione. A titolo di esempio si possono citare tre dati relativi a progetti messi in campo negli ultimi quindici anni: alcune spese per il campo dietro al carcere di Secondigliano; la ristrutturazione della ex scuola Deledda e il progetto per l’area di Cupa Perillo a Scampia, di cui si dirà meglio in seguito.

Rispetto al campo autorizzato di Secondigliano, dal rapporto Segregare Costa del 2012, che ha analizzato la spesa per i campi rom a Napoli, Milano e Roma, è emerso che dal 2005 al 2011 il comune ha speso circa 500 euro al mese per ognuno dei 92 nuclei familiari residenti nei container per servizi idrici ed elettrici. Con 500 euro al mese in zone periferiche si paga un affitto e pure le bollette.

La struttura di accoglienza nella ex scuola Deledda si è insediata nel 2005[3] e nel 2009[4] ha avuto un finanziamento con fondi Pon sicurezza di circa 1 milione di euro[5], 600 mila per lavori di ripristino della struttura e 400 mila per attività sociali. La struttura è gestita da un’associazione che annualmente svolge attività definite di “vigilanza sociale”. L’ultimo bando del comune di Napoli riporta una cifra di 74 mila euro per queste attività[6]. Nella struttura vivono tra le 15 e le 20 famiglie. Con una stima approssimativa, se contiamo i fondi impiegati dall’anno del suo insediamento, ogni famiglia ha goduto di circa 130 mila euro per vivere in un’aula scolastica da condividere con un’altra famiglia. Nella provincia di Napoli con quella cifra si acquista un appartamento.

Da ultimo il progetto del 2014 per il nuovo villaggio di Cupa Perillo a Scampia, con un finanziamento di 7 milioni di euro per la sistemazione in alloggi temporanei di 400 persone – 70-80 famiglie –, con impegno a famiglia di poco meno di 100 mila euro.

Per completezza del discorso circa gli attori coinvolti nelle politiche che riguardano i rom negli ultimi quindici anni, è necessario precisare che nel maggio 2008 il governo Berlusconi emanò per la Campania l’ordinanza n. 3678 (“Disposizioni urgenti di protezione civile per fronteggiare lo stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi nella regione Campania”). Durante quel periodo la Prefettura ebbe un ruolo di guida e raccordo delle azioni delle amministrazioni locali, con un fondo che in Campania fu di 16 milioni di euro per portare a termine cinque progetti. Nel 2011 il Consiglio di Stato dichiarò l’illegittimità di tale provvedimento e i soldi tornarono indietro, salvo 10 milioni per il progetto di insediamento per rom in via delle Industrie, zona est della città, il quale però non è mai stato realizzato.

L’attuazione delle linee europee

Da più di quindici anni, una serie di organismi sovranazionali condannano l’Italia per le condizioni di vita dei rom. Si possono citare, a titolo d’esempio, i rapporti dell’Ecri (European commission against racism and intolerance – Consiglio d’Europa), del Cerd (Commitee on the elimination of racial discrimination), della Fra (Foundamental rights agency). Si tratta di organismi preposti al monitoraggio degli stati che hanno il compito di fornire indicazioni sui temi della discriminazione e dei diritti umani. Ce ne sono altri ma non ha senso citarli tutti, quel che è certo è che tutti concordano nel ritenere la questione rom uno dei casi più gravi di discriminazione in Italia ed esortano il governo centrale a cambiare politica nei loro confronti; tra le priorità indicate vi è quella dell’alloggio.

Accanto ai rapporti citati si sono susseguite nel tempo le risoluzioni del parlamento europeo che hanno fissato le linee di indirizzo per superare la segregazione e favorire efficaci politiche di inclusione per i rom. L’Ue nel 2011 ha stabilito una Piattaforma europea per l’inclusione dei rom, individuando i dieci principi prioritari (tra i quali di particolare rilevo è il numero due, che afferma la necessità di un approccio risolutivo “esplicito ma non esclusivo”, ovvero a favore dei rom ma non solo per rom). Un atto importante è stata la Comunicazione n. 173/11 con cui la Commissione europea ha obbligato gli stati membri a individuare un organismo interno allo stato con funzione di raccordo sulle questioni rom. La commissione ha individuato gli assi di intervento prioritario: istruzione, occupazione, sanità, alloggio. In particolare, per quest’ultimo, ha chiarito che gli interventi nel settore abitativo devono far parte di un approccio integrato (comprendente i settori della sanità, dell’assistenza sociale, del lavoro, ecc.) e devono essere finalizzati a superare la condizione di segregazione. Il 4 giugno 2015 è stato pubblicato il primo provvedimento giurisdizionale in Italia che considera discriminatoria la condotta di un comune, in questo caso Roma, che si concretizza nella decisione di trasferire circa 600 rom e sinti nell’area del villaggio attrezzato La Barbuta.

L’Italia ha individuato nell’Unar – Ufficio nazionale contro le discriminazioni razziali, incardinato nella Presidenza del consiglio – l’organismo di raccordo e ha redatto la Strategia nazionale per l’inclusione di rom, sinti e camminanti, il primo documento italiano che dà, almeno sulla carta, una prospettiva di lungo termine e non emergenziale alla questione rom. Nel documento sono trattate tutte le tematiche, dalla condizione giuridica all’istruzione, al lavoro. Rispetto alla questione abitativa, il documento chiarisce che “la politica amministrativa dei ‘campi nomadi’ ha alimentato negli anni il disagio abitativo fino a divenire da conseguenza, essa stessa presupposto e causa della marginalità spaziale e dell’esclusione sociale”; d’altra parte si fa riferimento alle esperienze progettuali realizzate in alcuni comuni italiani che dimostrano come “esistano e possano concretamente coesistere soluzioni diverse, complementari e multiple alla questione abitativa delle popolazioni rom, sinti e camminanti, in grado di corrispondere sia alle caratteristiche di coloro che si desidera includere che alle specificità del territorio di residenza”; infine si citano alcuni esempi: edilizia sociale in abitazioni ordinarie pubbliche (la casa popolare), sostegno all’acquisto e sostegno all’affitto sul libero mercato, auto-costruzioni accompagnate da progetti di inserimento sociale, affitto di casolari e/o cascine in disuso di proprietà pubblica, ecc.

Purtroppo, da alcune ricerche recenti[7] si evince un notevole ritardo nell’attuazione di tale documento strategico. Le amministrazioni locali non ne hanno quasi mai recepito le indicazioni e proliferano in Italia i progetti di insediamenti monoetnici – villaggi, campi, centri di accoglienza – che non rispondono a queste linee di indirizzo. Napoli e la Campania non sono da meno, atteso che nel 2013 venne progettato e realizzato un insediamento monoetnico a Giugliano, in una zona ad altissimo rischio ambientale e sanitario, e in seguito il progetto per il villaggio rom della zona di via Cupa Perillo a Scampia.

Il campo rom di Masseria del Pozzo è sorto nella primavera del 2013 nel comune di Giugliano in Campania in base alla deliberazione del commissario prefettizio – insediatosi in luogo dell’amministrazione comunale – n. 10 del dicembre 2012. I fondi per la sua predisposizione derivano da un finanziamento del ministero dell’interno, erogato in base a un progetto presentato dal commissario stesso che fa riferimento alla richiesta di 379.210 euro per la realizzazione. Il campo consiste in una spianata di terra nella zona della ex Resit, ovvero uno dei siti più inquinati d’Europa, nell’epicentro della zona definita comunemente Terra dei fuochi, con alcune postazioni igieniche. A pochi metri di distanza si trovano diverse discariche abusive, sequestrate e per le quali vi sono indagini in corso. Vi risiedono tra le 350 e le 400 persone. L’apertura del campo, nel marzo 2013, è stata preceduta da alcuni interventi da parte degli organi competenti. In particolare l’Asl ha avuto un comportamento altalenante: in un primo momento ha dato parere favorevole alla costruzione del campo, salvo poi revocarlo in via cautelativa data la pericolosità dell’area, per poi confermare nuovamente il parere favorevole e consentirne l’apertura. Attualmente il campo si trova in uno stato di assoluto abbandono.

Il caso di via Cupa Perillo

La distanza siderale tra le indicazioni europee e le politiche locali ha, forse, iniziato a incrinarsi. Infatti, se i progetti segreganti attuati con fondi ministeriali (come quello di Giugliano) o comunali, non hanno avuto grossi intoppi, nonostante la strategia europea e nazionale, nel caso di fondi provenienti dall’Ue – per esempio i fondi europei di sviluppo regionale (Fesr) –, comincia a verificarsi che la commissione europea, con comportamento coerente, ritiri i finanziamenti.

Questo è quanto accaduto per il progetto di Cupa Perillo a Scampia. Il progetto, presentato nel 2008 dal comune di Napoli all’amministrazione regionale, venne da quest’ultima inserito nel parco progetti con assegnazione di fondi Fesr. Si trattava di una soluzione simile a quella di Secondigliano: un’area con prefabbricati per circa 800 persone, con l’unica differenza che la zona era la stessa dove tuttora vivono i rom negli insediamenti spontanei. Da allora l’esecuzione del progetto ha dovuto superare molte peripezie ed è stato anche rivisitato, in un laboratorio eseguito dall’Università Federico II. Infatti, con delibera del maggio 2014, il progetto originario è stato annullato e sostituito con un nuovo progetto, poi divenuto definitivo con delibera di giunta comunale del 29 dicembre 2014. Purtroppo quest’ultimo progetto condivideva con il precedente il fatto che si trattava di un insediamento per soli rom, temporaneo, ai margini del tessuto urbano e senza alcun approccio integrato.

Con due comunicazioni all’indirizzo di un gruppo di associazioni che hanno presentato una richiesta di chiarimenti, la commissione europea ha ritenuto il progetto presentato non in linea con le norme europee che disciplinano l’erogazione dei fondi Fesr. Le ragioni addotte sono due: la collocazione spaziale deve essere tale da non generare segregazione ed è necessario un approccio integrato. La prima comunicazione della commissione è datata agosto 2014. Nonostante tale indicazione il comune ha deliberato il progetto definitivo nel dicembre 2014 e nell’aprile 2015 la commissione ha riaffermato gli stessi principi, chiarendo altresì che il progetto così come è non si può fare e non ci sono i tempi per una modifica, tenuto conto della scadenza per l’uso dei fondi europei 2007-2013.

[1] Saudino F., Zoppoli G. (a cura di), I rom in Comune, Napoli, 2012.

[2] Saudino F., Zoppoli G., 2012, cit.

[3] Una delibera di giunta comunale n. 2116 del 27/05/05 riferisce di un finanziamento di euro 146.950 per il trasferimento dei rom nella struttura.

[4] Delibera n. 1317 del 5/08/09.

[5] http://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/24456.

[6] Determinazione dirigenziale n. 10 del 20/03/15.

[7] www.21luglio.org