L’emigrazione da Napoli verso l’Italia

di Giuseppe D'Onofrio

Il fenomeno delle migrazioni interne ha sempre interessato tutte le regioni dell’Italia meridionale. A partire dagli anni successivi al secondo conflitto bellico fino alla fine degli anni Settanta, l’emigrazione dal sud verso le regioni del centro-nord e del triangolo industriale registra un incremento significativo paragonabile a quello della grande emigrazione verso le Americhe del primo Novecento. Tra il 1950 e il 1970 un numero compreso tra i tre e i cinque milioni di persone si trasferisce stabilmente dal sud al nord dell’Italia. Ad attrarre i meridionali è la domanda di manodopera necessaria alla ricostruzione post-bellica, ma soprattutto lo sviluppo industriale che accompagna il “miracolo economico” di quegli anni.

Nei primi anni Settanta il saldo migratorio della sola regione Campania – la differenza cioè tra il numero di immigrati (iscrizioni anagrafiche) e quello di emigrati (cancellazioni anagrafiche) – è di –29.500 unità su base annuale, con 44.500 partenze a fronte di 15 mila rientri. In quel periodo, insomma, ogni anno, il sei per mille della popolazione lasciava la Campania.

Nel periodo che va dall’inizio degli anni Ottanta alla prima metà degli anni Novanta si assiste a una contrazione del fenomeno delle migrazioni interne con la conseguente diminuzione delle partenze rispetto al periodo precedente. È solo a partire dalla seconda metà degli anni Novanta che il fenomeno riprende vigore interessando tutte le regioni dell’Italia meridionale e in particolare la Campania dove, tra il 1990 e il 2000, si registra una perdita interna pari a 217 mila unità. In questi anni, in Campania, l’aumento del tasso di migratorietà (inteso come rapporto tra il saldo migratorio interno e la popolazione residente moltiplicato per mille) interessa tutte le province, ma a presentare una dinamica migratoria più attiva sono le province di Napoli e Caserta, seguite da Salerno, Avellino e Benevento. Anche le destinazioni di questa nuova ondata migratoria non sono più quelle di una volta: la maggioranza dei flussi, e non solo quelli in partenza dalla Campania, non si dirigono più verso le regioni del triangolo industriale ma verso le regioni del nord est e del centro del paese.

Uno sguardo al presente

Secondo l’istituto Svimez, che annualmente pubblica un rapporto sullo stato dell’economia nel Mezzogiorno, tra il 2001 e il 2014 più di 744 mila persone hanno lasciato definitivamente l’Italia meridionale[1]. La composizione interna di questi flussi è piuttosto eterogenea. A partire sono infatti studenti, operai, impiegati, insegnanti, personale sanitario, ingegneri, ecc.; insomma lavoratori ad alta e bassa qualificazione.

Ad assorbire la parte più consistente di questi nuovi flussi è stata la regione Lombardia; seguono l’Emilia Romagna e alcune regioni dell’Italia centrale come Lazio e Toscana. Nel solo 2012, le regioni meridionali hanno perso 56 mila persone. La maggioranza ha un’età compresa tra 20 e 39 anni. Un terzo di questi nuovi migranti proviene dalla Campania, una delle regioni con la maggiore concentrazione di persone povere.

Le aree di partenza di questa nuova emigrazione non sono più quelle interne e collinari come in passato ma per lo più quelle metropolitane, con al primo posto la conurbazione della provincia di Napoli. Dal 2001 al 2012 la sola città di Napoli ha infatti registrato un saldo migratorio negativo pari a –97 mila unità, classificandosi come primo comune d’Italia per emigrazione.

Nell’anno 2013, la provincia di Napoli, che rappresenta il 5,1% della popolazione italiana, è stata la provincia italiana che ha perso il numero più elevato di persone per spostamenti interni: la differenza tra iscrizioni e cancellazioni (per spostamenti verso altre province) ammonta a –12.500 unità, una perdita superiore persino al totale di regioni come Puglia (–8.600), Sicilia (–8.400) e Calabria, il cui saldo migratorio si aggira sui –6.500.

Se si considera, poi, che la regione Campania, sempre nell’anno 2013, ha registrato il saldo migratorio negativo più elevato rispetto a tutte le altre regioni meridionali – la differenza tra iscrizioni e cancellazioni in Campania ammonta infatti a –18 mila unità – e che 12.500 di queste perdite interessano la sola provincia di Napoli, è piuttosto evidente lo stato di crisi occupazionale in cui sono precipitate la città e la sua provincia negli ultimi anni.

La perdita di popolazione di Napoli e provincia cresce infatti anche in rapporto al principale indicatore del mercato del lavoro: un tasso di disoccupazione cresciuto di otto punti percentuali in soli cinque anni, passando dal 14% del 2008 al 25,7% del 2012. Questo indicatore si inserisce nel quadro di una crescita stentata che interessa l’intero sud Italia. Una debolezza acuita da una crisi economica che da un lato ha ridotto gli investimenti e dall’altro ha prodotto, come rileva l’ultimo rapporto Svimez, il ridimensionamento della base industriale sia in termini di numerosità degli impianti che di addetti in essi impiegati[2].

Insomma, l’elevato tasso di disoccupazione, la congiuntura economica sfavorevole, la debolezza strutturale del sistema di welfare, le criticità storiche del mercato del lavoro della città e della sua provincia – ampia diffusione di forme di lavoro irregolare, sottoccupazione e bassi salari – sono tutti fattori che continuano a rappresentare per migliaia di persone una vera e propria spinta all’emigrazione. Fattori che avranno influito anche sulla decisione dei 22.675 cittadini di Napoli e provincia che nel 2013 hanno deciso di trasferire la propria residenza nella provincia di un’altra regione. La maggioranza di essi sono uomini, anche se le donne continuano a rappresentare una parte consistente del flusso. Ad attrarre maggiormente i napoletani nel 2013 è stata la regione Lombardia, seguita da Lazio, Emilia Romagna e Toscana. Poco si sa, però, delle motivazioni, delle aspettative e del capitale culturale di coloro i quali abbandonano la città e la provincia. I dati purtroppo non sono sufficienti a tracciare il profilo completo dei protagonisti di un’emigrazione che, dal 2002 al 2013, ha registrato una media di 25.500 cancellazioni anagrafiche all’anno per trasferimento di residenza nella provincia di un’altra regione.

Un nuovo fenomeno

Nell’ultimo decennio, accanto alla tradizionale emigrazione, quella rilevata annualmente dall’Istat attraverso i trasferimenti di residenza, si registra la comparsa di un nuovo fenomeno migratorio: il pendolarismo di lunga distanza. Si tratta di persone che fisicamente lavorano e vivono per buona parte della settimana al centro nord, ma che mantengono casa e famiglia al sud. La caratteristica peculiare di questi nuovi flussi migratori risiede quindi nel venir meno della stanzialità come esito del percorso migratorio. Questo tipo di mobilità, non implicando un trasferimento di residenza del lavoratore nella regione in cui lavora, sfugge alle tradizionali rilevazioni statistiche basate sull’analisi dei trasferimenti di residenza.

Le origini di questi nuovi flussi migratori sono da ricercare nei mutamenti della struttura occupazionale e produttiva italiana e nelle trasformazioni che hanno attraversato il mercato del lavoro nell’ultimo ventennio. Insomma, se in passato la stabilità del rapporto di lavoro consentiva il trasferimento definitivo in una regione, oggi la precarietà e la temporaneità della domanda di lavoro danno vita sempre più spesso a un progetto migratorio individuale e a termine, concepito fin dall’inizio come un’esperienza da cui è esclusa ogni possibilità di inserimento definitivo nella regione di approdo.

Nel 2013 i pendolari di lungo raggio sono stati 142 mila. Essi vengono rilevati mediante strumenti diversi dalle tradizionali cancellazioni anagrafiche e incrociando dati acquisiti da una pluralità di fonti. Una di queste è la rilevazione delle forze di lavoro realizzata annualmente dall’Istat, all’interno della quale vengono inserite domande specifiche su lavoro e residenza.

Il fenomeno della pendolarità su lunga distanza riguarda soggetti molto differenti tra loro, sia persone con un livello medio-alto di istruzione che con bassi titoli di studio e livelli di qualificazione. Se i pendolari di lunga distanza dal profilo più alto, i laureati per intenderci, lavorano nel settore impiegatizio e nella pubblica amministrazione, i pendolari con basso titolo di studio sono invece prevalentemente operai.

Secondo l’ultimo rapporto Svimez (2014) i pendolari sono prevalentemente maschi, giovani (il 70% ha meno di 45 anni) e dipendenti. Sono in crescita anche i pendolari coniugati, che nel 2013 hanno raggiunto il 31% del totale dei pendolari. Quanto ai settori, i pendolari di lungo raggio trovano lavoro soprattutto nell’edilizia, nell’industria in senso stretto e nei servizi. Le regioni che li attraggono maggiormente sono la Lombardia, il Lazio e l’Emilia Romagna.

La Campania – in particolare le province di Napoli e Caserta – rappresenta la regione più interessata dal fenomeno, ma è difficile stimare il numero esatto dei lavoratori pendolari residenti in queste province. Gran parte degli spostamenti si realizza in macchine, furgoni e pulmini e tende sempre più spesso a confondersi con il regolare flusso stradale in direzione nord del paese. A scegliere di viaggiare con questi mezzi sono soprattutto gli operai del settore delle costruzioni che ogni domenica sera lasciano la città e la provincia per raggiungere i tanti cantieri disseminati per il paese. La loro è un’emigrazione silenziosa, ma comunque visibile se ci si avvicina ai numerosi autogrill alle porte di Napoli dove si danno appuntamento per partire, di solito suddivisi in piccole squadre. Altri invece prediligono ancora il treno come mezzo di spostamento; si tratta solitamente degli operai dell’industria, occupati soprattutto in Lombardia ed Emilia Romagna.

Come dimostrano alcuni studi[3], le condizioni di vita e di lavoro di questi nuovi emigranti operai sono piuttosto precarie. Condividono spesso appartamenti sovraffollati, pagati dalle piccole ditte meridionali per cui lavorano – inserite solitamente in reti di appalti e subappalti nel centro e nel nord Italia – e sono costretti a spostarsi seguendo la geografia delle commesse. La loro permanenza in un luogo appare sempre più condizionata dalla durata di appalti e commesse piuttosto che da scelte di natura individuale o familiare. Ci troviamo dinanzi a una sorta di hobos del ventunesimo secolo: lavoratori a “mezza fissa dimora”, a caccia di opportunità di lavoro, disposti a prestare la loro attività ovunque ce ne sia bisogno. Ad accomunare i protagonisti di questo particolare segmento del movimento migratorio interno sembra essere una condizione umana e lavorativa densa di precarietà che si trasferisce, senza mutare, dai territori di partenza a quelli di destinazione.

I dati statistici disponibili e gli studi sul fenomeno non fanno altro che confermare come la città di Napoli e la sua provincia continuino ormai da un ventennio a espellere verso l’esterno una quota consistente di popolazione. Sembra quasi che diritti e opportunità siano appannaggio soltanto di una parte di cittadini. Agli altri non resta altro che preparare i bagagli e reperire altrove le risorse di cui hanno bisogno. La perdita di capitale umano, economico e culturale che ne consegue renderà molto difficile un’inversione di tendenza. L’assenza di una politica di sviluppo economico, la fragilità degli investimenti, le problematicità del mercato del lavoro e il ridimensionamento delle attività produttive sul territorio, lasciano presagire un futuro tanto incerto quanto il presente.

[1] Anticipazioni rapporto Svimez 2015 sull’economia del Mezzogiorno, 30 Luglio 2015.

[2] Sintesi rapporto Svimez 2014 sull’economia del Mezzogiorno, pag. 21.

[3] Cfr. D’Onofrio G., Orientale Caputo G., “Emigrare senza radicarsi: storie di lavoratori pendolari dal Sud al Nord del paese”, in Bubbico D., Morlicchio E., Rebeggiani E. (a cura di), Su e giù per l’Italia. La ripresa delle emigrazioni interne e le trasformazioni del mercato del lavoro, Franco Angeli, Milano, 2011.