Piccole stelle per piccoli pubblici. Lo stato della musica

di Ciro Riccardi

Tracciare una mappa della musica a Napoli non è impresa semplice, non solo per la quantità dei fenomeni, ma anche per la loro frammentarietà. Cercherò, a partire da elementi sotto gli occhi di tutti, di tratteggiare alcuni scenari che mi sembrano significativi.

Innanzitutto occorre fare dei distinguo, tra musica “colta” e musica popolare, e tra mercato discografico e concerti: un dato comune a questi ambiti è la mancanza di risorse, di finanziamenti pubblici o privati, dovuta a un progressivo impoverimento della domanda, sia in termini quantitativi che qualitativi. Una cosa è certa: la musica classica, la contemporanea e il jazz più avanguardistico, che per mettere in piedi produzioni significative non possono contare solo sul pubblico numericamente ristretto a cui sono rivolti, soffrono maggiormente questa situazione. La mancanza di politiche volte ad ampliare il pubblico e valorizzare il patrimonio creativo della città, ha portato allo svilimento di una scena che fatica a mantenere anche solo il suo massimo teatro, il San Carlo, che anno dopo anno si vede tagliare le risorse, con sempre meno garanzie per i lavoratori e sempre maggiori ingerenze politiche. Poco male, si potrebbe dire: una manifestazione artistica al di fuori del mercato, che non può contare sulle proprie forze, non merita gli aiuti delle istituzioni, o almeno non più di quanti già ne abbia; un assunto che potrebbe avere qualche validità se tali aiuti venissero spostati verso altri tipi di produzioni musicali, ma non è il nostro caso. A Napoli, storicamente una delle città più importanti in Europa nella creazione e nella produzione di opere liriche, la carenza di fondi comporta la spoliazione delle maestranze, delle scuole di canto e strumentali, che con grandi difficoltà riescono a raggiungere ancora un livello di eccellenza. Un dato che si riflette sulla scena cittadina, con sempre meno professionisti validi a tramandare la difficile arte della musica. Se a ciò aggiungiamo lo stato disastroso in cui versa il Conservatorio San Pietro a Majella, depauperato da una classe docente e da una direzione che mirano da tempo solo a conservare il proprio piccolissimo entourage, con poche idee nuove, senza progetti per il futuro e senza alcuna voglia di migliorare l’offerta a favore degli studenti, il quadro diventa completo.

Gli spazi delle avanguardie

Un’inversione di tendenza potrebbe dare nuovo slancio perfino alla musica cosiddetta d’avanguardia, che in questi anni, nonostante tutto, gode di un rinnovato interesse soprattutto da parte degli addetti ai lavori; musicisti e appassionati, affascinati dalla maggiore libertà artistica e produttiva, si cimentano con le opere di Luigi Nono, Cage e Stockhausen, o con nuove modalità di composizione e improvvisazione. Una tendenza interessante, anticipata dal gruppo di Dissonanzen (fondato nel ’93), che riscontra un seguito anche in ambienti più informali e giovani, come il collettivo di improvvisazione radicale Crossroads Improring, o in alcuni artisti di fama non solo cittadina, come il pianista Ciro Longobardi. Tendenza che trova un suo sviluppo nel corso di musica elettronica del conservatorio, guidato da Elio Martusciello, compositore proveniente dalle arti visive e che ben sintetizza nelle sue opere tutte le tendenze sincretiche, di commistione tra linguaggi sonori e linguaggi pertinenti alle altre arti, che in questi ultimi tempi hanno stimolato la ricerca di molti compositori.

La caratteristica di gran lunga più interessante di questa scena, che purtroppo solo parzialmente la salva dal rischio di autoreferenzialità, è la sua attenzione per gli spazi, intesi come luoghi sociali, ma anche come spazi tra l’artista e il suo pubblico nell’organizzazione del materiale sonoro. Una musica forse troppo ermetica per creare un mercato, troppo radicale per piacere ai finanziatori e alle istituzioni, ma che apre da sé nuove frontiere, attraverso iniziative che hanno il merito di portare la pratica dell’ascolto in luoghi inusuali, lontano dai teatri e dagli auditorium. A Napoli, esperienze di autogestione e centri sociali occupati – come Lido Pola o ex Asilo Filangieri – ma anche comitati di quartiere, rassegne e piccoli festival messi in piedi a volte dagli stessi musicisti con pochi mezzi (per esempio Multiversal, festival itinerante ospitato a palazzo Venezia, o le numerose iniziative del collettivo Infrasuoni presso l’ex Asilo Filangieri), hanno ospitato negli ultimi anni molte di queste performance, a volte davvero solo per il gusto di farlo, dal momento che gli incassi non riescono a garantire, se non in minima parte, la sopravvivenza agli artisti, e un artista per essere veramente libero deve riuscire a guadagnare paghe dignitose.

Eppure, questo è un problema che si riscontra in quasi tutte le altre scene musicali cittadine indipendenti (ovvero senza finanziatori pubblici), anche quelle che più assecondano i gusti del pubblico. Purtroppo in città i luoghi di fruizione della musica dal vivo sono davvero pochi e male organizzati, e anch’essi soffrono per la mancanza di denaro. I festival hanno subito tagli esponenziali dei finanziamenti pubblici, molti hanno dovuto chiudere i battenti. Altri pagano poco e con scadenze improponibili. Alcuni promoter cercano di sopperire attraverso l’iniziativa privata, puntando sui nomi noti, che riescono a sopravvivere in virtù di una fama raccolta in annate passate, quando i soldi c’erano e venivano lautamente elargiti, e le loro produzioni riuscivano a raggiungere il pubblico di tutta la nazione. Oggi anche i concerti di artisti non napoletani, fatta eccezione per quelli con un pubblico ben consolidato e dalla fama amplificata da giornali e televisione, sono spesso disertati dal grande pubblico, e chiudono con i conti in rosso. Ovviamente anche in questo caso vanno fatte le dovute eccezioni: alcuni artisti in ambito hip hop, ma anche band indie, gruppi pop rock e cantautori, sono riusciti, a fronte di un’industria musicale praticamente assente, a trovare un loro seguito grazie a proposte sincere, svincolate dalla moda. Sto parlando dei Foja, per esempio, forse il gruppo più seguito in Campania negli ultimi anni, che ha visto crescere in poco tempo un interesse verso le ballate scritte da Dario Sansone, cantante e frontman; oppure degli Epo, gruppo rock dalle sonorità inedite, o di Giovanni Truppi, cantautore anticonformista che ricorda Rino Gaetano. Questi, nel sottobosco ricco di proposte e di invenzioni della musica napoletana, sono forse i volti più noti. Eppure, nessuno di loro ha avuto ancora il successo di pubblico che altri nomi in passato hanno ottenuto; siamo lontani, per esempio, dal successo su scala nazionale che ebbero 99 Posse, Almamegretta o 24 Grana nella seconda metà degli anni Novanta.

Piccole stelle per piccoli pubblici

Verrebbe da pensare che l’interesse delle masse per la musica sia venuto meno. La curiosità verso le nuove proposte è ridotta ai minimi termini, e gli artisti che si sono avvicendati negli ultimi venti anni non sono riusciti a raggiungere lo stesso numero di persone dei loro predecessori. Cosa è cambiato? Colpa degli artisti, che non riescono a rendere il loro messaggio universale, o stiamo assistendo a un cambio epocale, che investe il modo in cui gli artisti si propongono e il modo in cui le persone fruiscono la musica?

Nell’era di internet, la musica è diventata un fenomeno a “bassa intensità”. Siamo bombardati da informazioni, e la musica non fa eccezione. Uno streaming continuo e pressoché gratuito in cui tutto è sullo stesso piano, una canzone di De André e l’ultimo pezzo dell’estate, uno swing degli anni Venti e un brano di hip hop. Innumerevoli artisti possono promuovere la propria musica a costi bassissimi, attraverso video, pagine, foto: un enorme mare in cui è davvero difficile orientarsi. Eppure, quello che potrebbe sembrare un fenomeno tutto sommato positivo, mostra il suo volto più inquietante nell’algoritmo che regola la navigazione in rete: manifestando una preferenza, ti vengono proposti i contenuti della pagina stessa o di pagine con contenuti simili, o di persone amiche, quindi presumibilmente con gusti affini. Contenuti simili, cerchie di contatti adiacenti. Così la pigrizia dell’utente medio lo porta a informarsi su quello che già conosce, ed è difficile che si avventuri nel mare inesplorato della Rete. In questo modo si creano bacini di utenza più o meno statici, che definiscono un panorama di nicchie di utenti-consumatori, sia a livello di musica popolare che su un piano più ricercato. Questo appare evidente nel modo in cui si delineano i gruppi di follower di ciascun artista: molto definiti per età, gruppo sociale di appartenenza e, questo mi sembra il dato più nuovo, per appartenenza geografica.

Napoli esprime un gran numero di fenomeni musicali, talvolta molto connotati dal punto di vista linguistico, ma sempre ben radicati in città, anche nei casi in cui i modi di esprimersi sono meno definiti geograficamente. L’altra faccia della medaglia è che artisti come quelli che ho citato, che avrebbero avuto caratura nazionale in altri periodi storici, rimangono nel mercato regionale o poco più, e sono seguiti da etichette giovani, più piccole e meno blasonate di quelle a cui fanno riferimento i “grandi nomi”, se questa definizione ha ancora un senso (ce l’ha in pochissimi casi). È il caso di Full Heads, etichetta dei Foja e di tanti altri artisti partenopei, o della Agualoca Records, che da poco ha lanciato Flo (Floriana Cangiano), una cantante dalla inventiva artistica fuori dal comune che ha vinto il premio Musicultura 2014. Le piccole etichette hanno il pregio di creare cataloghi in cui c’è spazio anche per fenomeni nascosti, ma non possono competere con realtà più grandi, “industriali”. Sui media tradizionali, sempre più generalisti e rivolti ai generi consolidati e con maggiore audience, sembra che il tempo dei grandi divi stia definitivamente scomparendo, mentre qui a Napoli si affacciano piccole stelle locali, che a fatica (certi giri di affari ormai appartengono al passato) riescono a portare in tour la propria musica, in molti casi decisamente interessante. Piccole stelle per piccoli bacini di utenza: ognuno è divo in casa propria.

Il ritorno del live

Se la polarizzazione dei fruitori ha portato, nel panorama cittadino, alla rinuncia di ogni pretesa di essere trasversali, d’altra parte ha favorito la creazione di nicchie di ascoltatori, più attenti ed esigenti che in passato. In questo modo si crea un rapporto più confidenziale tra l’artista e il suo pubblico, uno scambio diretto, che passa per i media interattivi, ma anche attraverso concerti più accoglienti, meno formali, in posti più piccoli, come il Cabaret Portalba – magnificamente diretto da Peppe Fontanella, ex 24 Grana –, il Moses, o il Lanificio, dove i gruppi che hanno più seguito si esibiscono a volte anche con cadenza mensile o settimanale.

Dal punto di vista del mercato discografico la situazione è analoga. I dischi, si sa, non vendono più, e vengono usati quasi solo a fini promozionali. Inoltre, la musica consumata sul computer ha tutt’altro sapore rispetto ai tempi dell’hi-fi, quando per ascoltare un disco dovevi volerlo, cercarlo, portarlo a casa e stare seduto sul divano mentre la musica scorreva. Un’esperienza del tutto diversa rispetto alle micro-casse del portatile, con una definizione bassissima e un’attenzione all’ascolto pressoché nulla. Il formato prediletto è oggi il video su Youtube, dove la musica è comprimaria rispetto alle immagini. Ci si immagina quanti click potrebbe avere oggi una grande suite rock in stile anni Settanta, con le sue durate impensabili per i nostri tempi, o un concept album? In tale panorama, il concerto dal vivo torna a essere l’esperienza d’ascolto più intensa, forse come prima della tv, e anche l’artista si adegua a questo rapporto più diretto con i suoi seguaci.

Non si corre il rischio di passare per nostalgici, perché c’è un lato negativo abbastanza evidente: pare che la cosa meno importante in questi anni sia diventata la qualità della proposta musicale. Meglio non eccedere in formazioni complicate, sonorità troppo azzardate, tempi troppo lunghi o strumenti insoliti: il disco si fa con pochi mezzi, quelli strettamente indispensabili per proporsi dal vivo e sui social network, e con un linguaggio facilmente riconoscibile. Eppure, nonostante la polarizzazione e la mancanza di risorse, ci sono ancora tante proposte nuove che emergono. Oggi ciascuno si fa la propria produzione discografica, rivolta ai propri fan, senza preoccuparsi più di tanto di essere un prodotto “vendibile”. Questa tendenza è sfociata negli ultimi anni nel fenomeno del crowdfunding, adottato da molti artisti cittadini: il pubblico partecipa economicamente alla produzione del disco, comprandone una copia prima che questo venga realizzato. Un’ulteriore dimostrazione dell’avvicinamento tra l’artista e i suoi fan, che esclude la mediazione di qualsiasi tipo di produzione dall’alto. Così, realtà anche di nicchia, riescono a mantenersi creativamente vive, realizzando prodotti notevoli dal punto di vista artistico. Un magma di idee che ribolle nel sottobosco sonoro cittadino, con l’augurio che tali tendenze sotterranee riescano a emergere, e che qualcuno riesca a sfondare il recinto della città. Se in Italia ci si accorgesse della ricchezza delle proposte musicali che nascono qua, Napoli avrebbe abbastanza idee per inondare la nazione con i suoi suoni.