Spazi, suoni e lingue nel romanzo “di Napoli”

di Chiara De Caprio

A mo’ di premessa. Estate del 2015. Giurie e lettori discutono se si possa premiare una scrittrice senza volto: il suo nome è Elena Ferrante, e sta vendendo un sacco di copie negli Stati Uniti con una quadrilogia di Neapolitan novels. A sponsorizzarla allo Strega è, tra gli altri, Roberto Saviano, che con Gomorra (Mondadori, 2006) ha venduto milioni di copie e fatto balzare sulle copertine dei giornali le periferie napoletane e il sistema della camorra.

Al di là delle differenze, con Ferrante e Saviano la letteratura, incrociando le sue strade con quelle del cinema e della televisione, diviene fenomeno di massa e occupa uno spazio assai più ampio di quello che le ritagliano l’industria del libro e il mercato editoriale. E tuttavia, se anche non considerassimo Ferrante e Saviano, la produzione di romanzi e narrazioni “di” e “su” Napoli non rimarrebbe affatto sguarnita. Anzi, ce n’è per tutti i gusti, come rivela anche solo un mero ordinamento cronologico di alcuni romanzi, narrazioni e raccolte di racconti editi tra il 2000 e il 2015.

Tra il 2000 e il 2001, Antonio Franchini fa i conti con la memoria personale e collettiva nel suo L’abusivo (Marsilio, 2001), mentre Domenico Starnone racconta la fiumana di oscenità, intemperanze, bugie che il ferroviere Federì riversa su moglie e figli nel romanzo con cui si aggiudica il Premio Strega (Via Gemito, Feltrinelli, 2000). Nel 2002, dopo Mistero Napoletano, Ermanno Rea narra in La dismissione la storia amara dell’Ilva di Bagnoli, cui seguirà l’ultima parte della trilogia sulla città, Napoli Ferrovia (Mondadori, 2007). Tra il 2002 e il 2006, edizioni e/o pubblica I giorni dell’abbandono e La figlia oscura con cui, dopo L’amore molesto (1992), Elena Ferrante chiude una trilogia di romanzi dedicati al rapporto con la maternità di figure femminili chiamate anche a interrogarsi sul loro allontanamento da Napoli.

Negli stessi anni Nel corpo di Napoli (Mondadori, 1999), A capofitto (seconda edizione rivista, Mondadori, 2001), Di questa vita menzognera (Feltrinelli, 2003) e la raccolta di racconti Magic People (Feltrinelli, 2005) danno corpo alla vocazione di romanziere e narratore di Giuseppe Montesano. Nel 2015, mentre il grande pubblico si appassiona alla quadrilogia “napoletana” che Elena Ferrante dedica all’Amica geniale (2011-2014), esce per Neri Pozza Il genio dell’abbandono, romanzo in cui Wanda Marasco narra la parabola esistenziale e artistica di Vincenzo Gemito servendosi di una lingua che sembra essa stessa voler incarnare la guizzante potenza visiva delle sculture di Gemito.

Questa la superficie, fatta di titoli, autori, case editrici, date. Restano, sul fondo, le domande più importanti: in quale Napoli sono ambientate queste storie? Che cosa accade ai personaggi una volta immessi in uno specifico spazio urbano, quello napoletano, saturo di storie e narrazioni?

Lo spazio e la lingua

Senza alcuna pretesa di completezza, alcune immagini si dispongono in sequenza, quasi a suggerire la possibilità di un percorso: una bruma rossastra e ostinata che s’insinua negli angoli più remoti delle case di Bagnoli; la pioggia scrosciante che riporta a galla quanto fogne e sottosuolo avevano inghiottito; l’opacità violacea del mare; lo spazio urbano, saturo di suoni: il tonfo sordo di sprofondamenti e voragini, i clacson nervosi delle auto e dei motorini, il «precipizio di voci» e urla che col loro timbro sembrano rendere diversa la qualità e la consistenza dell’aria: più opaca, più pesante, più aggressiva.

Tratte dal romanzo-inchiesta di Rea e dai romanzi di Montesano e Ferrante, le immagini appena proposte nulla concedono al canone della città “da cartolina”: inondata dal sole, pigramente adagiata su colline da cui, complice l’aria tersa, si scorge la sagoma del Vesuvio o il profilo sinuoso di Capri. Nulla, dunque, di quell’insieme di topoi che hanno contribuito prima a definire e poi rendere riconoscibile una certa “napoletanità” di maniera; semmai, un diverso sistema di immagini che, con la sua compattezza, costituisce una precisa indicazione sui modi in cui i narratori hanno ripensato la relazione tra città reale e raffigurazioni della città, ridefinendo – per continuità o differenza – il loro rapporto con quel ricco patrimonio di rappresentazioni letterarie che di Napoli sono state proposte tra Otto e Novecento.

Non è superfluo richiamare il fatto che l’aggettivo “napoletano” si riferisce in queste pagine a due caratteristiche: ambientazione e veste linguistica. Innanzitutto, per narrativa napoletana s’intendono quelle narrazioni che ambientano le loro storie a Napoli e nel suo hinterland; in seconda battuta, si vuole sottolineare il fatto che, tra queste, alcune esibiscono un impasto linguistico tra i cui ingredienti figurano l’italiano locale e il dialetto: viene così delineato uno spazio che ricrea e rielabora la situazione socio-linguistica della Napoli di oggi o del passato.

Richiamiamo, per ora, alcune modalità di rappresentazione della città. Che di Napoli ce ne siano due, anche nei romanzi, è stato osservato molte volte. E, come per la città reale, anche per le Napoli dei romanzi è stato discusso se queste due metà siano conseguenza della Storia o della Natura; in quest’ultimo caso, la frattura tra due poli viene assunta come un dato, a un tempo, morale e biologico della città: la Napoli bassa, agitata da istinti e sfrenatezza, senza soluzione di continuità e fratture storiche, diviene così il luogo in cui si consuma l’eterna battaglia della fame e del sesso, e dei poveri contro i poveri.

Data la forza interpretativa che questo modello ha avuto (in Domenico Rea e Anna Maria Ortese, per esempio), è utile capire come i romanzi di Napoli degli ultimi anni ci abbiano fatto i conti. Scopriamo così alcune cose. Anche in virtù di una collocazione temporale che parte dagli anni Cinquanta e Sessanta, i romanzi della quadrilogia di Elena Ferrante sono quelli in cui Napoli è rappresentata attraverso un modello nel quale due poli contrapposti nello spazio rimandano a una diversa organizzazione culturale, sociale e linguistica: la risalita di Elena dallo squallore del Rione alla casa inondata di luce di Posillipo trova un correlativo nella sua aspirazione all’italiano e nel suo atteggiamento di rifiuto e rimozione delle voci dialettali; la scelta dell’italiano, quindi, sa sì di emancipazione, ma reca memoria del doloroso e necessario allontanamento, fisico ed emotivo, dalle tane e dai ripostigli bui del dialetto. Questo perché nelle storie della Ferrante le voci dialettali rimandano a un universo dominato dalla violenza e dall’oppressione patriarcale. Nei romanzi L’amore molesto e La figlia oscura il dialetto agisce su madri e figlie come «un frullato di seme, saliva, feci, orina» che, paralizzandone gli organi fonatori, le riduce al silenzio. Narrare la propria storia significa, però, per le protagoniste-narratrici, ascoltare il suono delle parole dialettali, comprendere il modo in cui esse hanno condizionato scelte e movimenti, e fare, infine, i conti col proprio disgusto verso «la cavità cupa del ventre» femminile. Quando, alla fine della Figlia oscura, in una telefonata, Leda risponde «commossa» alle figlie che accentuano in modo esagerato la sua cadenza napoletana, capiamo che qualcosa, infine, si è mosso nel suo spazio interiore: il rapporto più flessibile tra dialetto e italiano è spia di una diversa relazione con il suo ruolo di madre e col passato.

Già nell’Amore molesto, del resto, Elena Ferrante faceva di Napoli un luogo in cui si dipana una trama che svela una verità a un tempo personale e universale. E, tuttavia, anche nel primo romanzo la griglia urbana non scolorisce in una rappresentazione convenzionale; anzi, il movimento dei personaggi attraverso uno spazio mai generico contribuisce a produrre l’accerchiamento della protagonista Delia: è la città stessa che la incalza e le toglie l’aria.

Pur partendo talvolta dal modello delle “due Napoli”, le storie situate dopo gli anni Ottanta assumono, invece, come operatori di narratività gli sconvolgimenti nel tessuto urbano verificatisi a partire dagli anni Cinquanta (cioè, gli anni del laurismo, delle speculazioni edilizie, dell’espansione delle periferie). Anche nei romanzi, Napoli diviene centrifuga, si ramifica e si collega alla costellazione di paesi dell’Area Nord che s’incuneano verso la provincia di Caserta. Non solo in Gomorra, quindi, la visione dualistica è problematizzata e soggetta a verifiche. Per esempio, nei romanzi di Montesano le due Napoli, alta e bassa, borghese e plebea, italiana e dialettale, si sgretolano e confondono l’una con l’altra: perché ora al Vomero e Posillipo piove, il mare appare come una lastra grigia e l’aria è irrespirabile; ma anche perché nei due quartieri residenziali e italofoni vivono anche e soprattutto camorristi e nuovi ricchi.

A determinare la messa in crisi del modello delle due Napoli sono, in effetti, alcuni fenomeni che a partire dagli anni Ottanta e Novanta caratterizzano Napoli e il suo hinterland: la moltiplicazione delle periferie; il proliferare di cinture viarie esterne, bretelle e raccordi autostradali; la sostanziale contiguità politica e consumistica tra quartieri “borghesi” e “popolari”; la diffusione dei centri commerciali, che di questa contiguità diventano l’emblema per eccellenza.

Questo allargamento degli spazi non comporta per forza l’oblio di quelli tradizionalmente rappresentati: al contrario, non mancano casi in cui il confronto con la produzione narrativa otto-novecentesca porta a una rilettura attualizzante dell’immaginario topografico tradizionale. Può così accadere che in Magic people di Montesano il “palazzo-microcosmo”, nel suo doppio statuto di luogo della città reale e della città narrata, assuma, di volta in volta, i tratti di uno studio televisivo di un reality show, di un manicomio, di un lager: se nella narrativa napoletana l’interno poteva essere tana, rifugio, cavità materna, esso ora diviene gabbia, prigione.

Tra italiano e dialetto

Che sia rappresentata secondo un modello spaziale duale e centripeto o, al contrario, multifocale e centrifugo, negli ultimi quindici anni l’ambientazione napoletana comporta spesso una caratterizzazione linguistica che si fonda sulla presenza del dialetto e delle varietà d’italiano locale (la diversità dei romanzi di Ferrante è doppiamente significativa, perché proprio quel dialetto rimosso dalla superficie linguistica agisce nella trama e sui personaggi). Certo, le soluzioni sono diverse: c’è posto per gli usi iperrealistici e grotteschi di Magic People, così come per le potenti escursioni stilistiche che, a partire dal dialetto e dall’italiano locale, si registrano in Di questa vita menzognera e Il genio dell’abbandono. Proprio i due romanzi di Montesano e Marasco permettono di mettere a fuoco un ulteriore aspetto. Ciò che è notevole in alcuni romanzi di Napoli non è solo il lavoro sul serbatoio locale e la resa dei fenomeni d’interferenza tra dialetto e italiano, ma anche la qualità stilistica con cui sono restituiti i rapporti tra le altre varietà del repertorio nazionale: la pressione “orizzontale” dei codici della vita quotidiana, l’ampia gamma dei sottocodici delle professioni e dei gerghi, le retoriche dei linguaggi politici e dei nuovi media. Sebbene le soluzioni di Montesano e Marasco, ma anche di Starnone, siano diverse, è però vero che la lingua dei loro romanzi è a un tempo doppia, plurivoca, aperta a spinte centrifughe verso l’alto e il basso. Se si può parlare di ricreazione mimetica di usi linguistici della città reale, è solo a patto di riconoscere che, nel suo complesso, l’efficacia della soluzione proposta da questi narratori trova il suo fondamento nella consapevolezza della inquieta relazione che linguaggio e narrazioni intrattengono con la realtà.

Un secondo aspetto va evidenziato. La compresenza di registri diversi, l’urto e l’incontro tra italiano e dialetto, i movimenti tra scritto e parlato – in una parola, la polifonia della lingua – rimandano a prospettive esistenziali e sistemi assiologici tra loro in competizione e in contrasto. In Via Gemito di Starnone, il confronto con l’ingombrante figura del padre, persino quando avviene nella forma di un ricordo provocato dal «soffio di vecchissime rabbie», si traduce in una perdita della capacità di «misurare le parole», in uno scivolamento verso le esagerazioni «rozze» e «imprudenti» che Federì era solito affidare al dialetto. Nella produzione di Montesano, sono invece l’italiano locale basso dei cafoni arricchiti e la lingua di plastica dei reality a rubarsi a vicenda la scena e a dispiegare – dagli schermi televisivi, lungo le strade della città, nelle residenze in collina dei nuovi ricchi – il loro potenziale entropico sul narratore: sulla testura linguistica della sua voce, sulle sue capacità di conoscenza e interpretazione del mondo.

Allo stesso modo, il confronto e la tensione tra i personaggi che affollano Il genio dell’abbandono di Marasco assumono consistenza sonora non solo attraverso la mescolanza di italiano e dialetto, ma anche con la ricreazione di un’ampia gamma di registri dell’italiano: sul versante dello scritto, sono abilmente resi gli appunti del dottor Virnicchi sull’internato Gemito; l’asciutta (e, per Gemito, reticente) notazione del registro degli orfani dell’Annunziata con la sua pretesa «di svuotare burocraticamente il mistero di una creatura»; le lettere e le memorie di Gemito, con tutto il campionario di errori tipici delle scritture semicolte, sempre in bilico tra oralità e scrittura, dialetto e italiano. Sul fronte dell’oralità, nel romanzo della Marasco, tra botteghe e bassi, cliniche e “salotti buoni”, le parole e le frasi in italiano, francese e napoletano rincorrono e accerchiano Vincenzo, si mescolano ai suoi discorsi per poi spegnersi nel momento in cui la notizia della sua morte si diffonde in una città che si riscopre smarrita e senza voce per «lacuna» o «pentimento».

Sebbene sia diversa la soluzione proposta, anche L’abusivo e Gomorra (e, in modo tutto sommato non diverso, nella Dismissione) riservano una precisa funzione – stilistica e narrativa – alle tecniche di riuso, prelievo e inserzione di un’ampia gamma di testi e parole dei linguaggi specialistici: inserti provenienti da altre sfere mediatiche, brani di articoli di cronaca locale, intercettazioni, verbali d’interrogatori, parole del gergo malavitoso e stilemi della cronaca giornalistica. Separando ciascuno di questi elementi dal suo contesto originario e riposizionandolo nell’architettura del romanzo, Franchini prima e Saviano poi mettono in luce formazioni discorsive e strategie retoriche degli universi di discorso di cui parlano: è anche attraverso questa opzione per un linguaggio capace di ricontestualizzare tessere testuali diverse che prende forma il peculiare timbro della voce che nell’Abusivo e in Gomorra dice “io”. Se questi materiali sono inseriti in una narrazione in cui la dimensione autobiografica è un modo di dizione e una postura etica, è appunto per far sì che il lettore sappia che questa voce si assume la responsabilità di interpretare, valutare, e dire.

Le osservazioni relative alla voce che nei romanzi dice io, ci fanno più decisamente entrare dentro gli ingranaggi dei testi. A questo livello, c’è dunque un altro, decisivo, aspetto della relazione tra spazio e lingue: la funzione che le voci di Napoli hanno sulla storia narrata. In questa prospettiva, un dato va messo in rilievo per i romanzi di Ferrante, Marasco, Montesano, Starnone: le voci della città giocano un ruolo significativo tanto nel costruire l’immaginario spaziale quanto nel definire la relazione tra spazio e personaggi. Infatti, avvolgendoli, quasi sempre minacciosamente, il dialetto e l’italiano di Napoli costringono i personaggi a riposizionarsi all’interno del sistema spaziale della città. In particolare, poiché in Via Gemito, in Di questa vita menzognera e nei romanzi di Ferrante la narrazione è auto- e omodiegetica, l’assedio di voci che si è appena descritto minaccia in primo luogo quella del protagonista: è la stessa voce narrante a doversi modulare in relazione a questo assedio, a dover rifiutare “le voci degli altri” o assumerle come parte integrante del proprio timbro attraverso mosse e contromosse di riposizionamento: discendere, risalire, riattraversare, fuggire, sono allora tutti movimenti possibili nello spazio urbano. Se muoversi nella propria città significa anche muoversi nel tempo, attraversare Napoli ha per il narratore-protagonista una precisa funzione: quella di ripercorrere la storia, personale o collettiva, dei luoghi, al fine di verificare attraverso quali parole e in quali forme esperienza e memoria possano essere nuovamente dicibili. Non sarà, quindi, sorprendente il fatto che il narratore-protagonista di Via Gemito possa trascorrere «tutto il pomeriggio a cercare date, identificare spazi, trovare proposizioni per immagini fluide». È infatti il nesso tra la forma dei luoghi e la quantità di passato, personale e collettivo, che ciascuno di essi custodisce a spiegare perché nei romanzi di Napoli siano privilegiati alcuni movimenti; sono infatti proprio gli attributi che definiscono la densità spaziale della città — stratificazione storica del tessuto urbano, verticalità dello sviluppo, presenza di cavità sotterranee — a favorire l’investimento narrativo e simbolico nei movimenti di discesa, nelle posture e nei gesti effrattivi.

I movimenti che parlano

Con un movimento di discesa e una rocambolesca fuga notturna prende avvio Il genio dell’abbandono. Scappato dalla casa di cura, Vincenzo Gemito si sottrae ai possibili inseguitori percorrendo «la via più lunga e disturbata dai ricordi»: la buia e ripida strada del Moiariello, che congiunge la collina di Capodimonte alle vie del centro greco-romano. Minacciato da latrati di cani e voci del passato egualmente terribili, Vincenzo si muove tanto più avanti nello spazio quanto più indietro nei ricordi e nel tempo, fino all’attimo-zero in cui tutto ebbe inizio, con un rumore che parla di abbandono e rifiuto: il tonfo del neonato nella ruota dell’Annunziata.

Non sembrano estranei alla spazialità verticale tipica di Napoli anche i tentativi di discesa negli scantinati e nei sottoscala di un rione di periferia presenti nei romanzi di Ferrante, così come è certamente connesso alla topografia cittadina il movimento ascensionale delle protagoniste dal Rione alle colline di Posillipo e, poi, da Napoli a Roma, Firenze, Torino. A loro volta, nei romanzi di Montesano l’immagine di Napoli come città verticale viene sottoposta a riletture e aggiornamenti. Il tradizionale modello verticale e centripeto s’interseca con un altro, centrifugo, verso la periferia diffusa che si distende tra Caserta e Napoli; inoltre, la discesa e l’immersione nel ventre non riattiva energie ma sconvolge, destabilizza e riporta a galla detriti, rifiuti, cadaveri: «il residuo non ulteriormente consumabile» (come lo ha definito Giancarlo Alfano) che Napoli deposita dentro di sé.

A ben vedere, anche nelle narrazioni della Dismissione e di Gomorra, certo diversi dai romanzi appena analizzati, è possibile riconoscere zone testuali in cui la postura “effrattiva” del narratore e il suo sguardo attento alle manipolazioni inflitte al territorio concorrono a descrivere Napoli e il suo hinterland come spazi cavi, sagomati prima dalla natura e poi divorati dagli interessi economici: ridotti, alternativamente, a nudi scheletri o corpi rigonfi. Gesti e immagini che parlano di violazioni ed effrazioni costellano il libro di Saviano. Basterà un esempio: alle violazioni che la camorra infligge allo spazio-corpo di Napoli e del suo hinterland (il porto «ano di mare che si allarga con grande dolore degli sfinteri», il «cranio nudo della provincia napoletana», il «ventre molle di Forcella» violentato dalle sparatorie), corrisponde, uguale ma di segno contrario, il movimento con cui Roberto entra nella grande villa, vuota ma ancora controllata dal clan, del boss Walter Schiavone: qui il protagonista compie il gesto «idiota» e liberatorio di svuotarsi la vescica in una sontuosa vasca che, come tutto il resto dell’arredamento, è ispirata a quella di Tony Montano, il gangster cubano di Scarface.

Non è un caso, dunque, se il lettore della Dismissione è tentato di dare particolare valore simbolico all’esplorazione notturna che Vincenzo Buonocore, il protagonista, conduce attraverso l’Italsider: «senza più fumi né fiamme; senza più voci, richiami, sibili, sfrigolii; senza l’inconfondibile miscela sonora propria dello stabilimento che non si ferma». Infatti, nella decisione di introdursi di notte all’interno della fabbrica si manifesta con chiarezza l’atteggiamento del tecnico specializzato; al silenzio e alla liquidazione dei reparti Buonocore risponde con la precisione e il rigore «assoluti» con cui esegue il suo ultimo compito: smontare le colate continue. Nella narrazione di Rea-Buonocore, muoversi con movimenti esatti, nominare secondo tassonomie precise, disegnare mappe, stendere inventari sono tutti gesti e operazioni attraverso i quali riprendere possesso, almeno sul piano emotivo e memoriale, di quegli spazi ormai vuoti che vengono sottratti alla classe operaia, così come prim’ancora, proprio collocando la grande fabbrica in un «sito di vulcaniche bellezze e acque benedette», le erano stati sottratti aria e mare. Insomma, anche per Rea, entrare nelle cavità significa opporre alle verità opache delle cronache e delle versioni ufficiali, una “storia” che riverberi sulla pagina scritta il senso della relazione tra spazi e uomini, e del dialogo tra le loro voci.

Proviamo a concludere: oltre alla loro intima solidarietà, scelte stilistiche, postura narrativa, statuto gnoseologico ed etico della voce narrante ci hanno consentito di mettere a fuoco l’importanza che nella costruzione delle trame e dei personaggi hanno i movimenti nella rete spaziale e sonora di Napoli. L’attraversamento degli spazi è anche un attraversamento delle voci e delle lingue: gli uni e le altre non funzionano come fondali «docili» e remissivi; piuttosto, distorcono i percorsi dei personaggi, li costringono a traiettorie di allontanamento e ritorno, a effrazioni e discese. Chiedono di ascoltare e ricordare, di narrare, e comprendere.

 

Bibliografia minima

Un quadro sull’imagery di Napoli nel romanzo del secondo Novecento è offerto da G. Alfano Un ‘vivere pieno di radici’. Il modello spaziale di Napoli nel secondo Novecento, in Id., Paesaggi mappe tracciati. Cinque studi su letteratura e geografia, Napoli, Liguori, 2010, pp. 91-150; sull’alterità geografica e culturale della Napoli dell’Amore molesto, v. anche Tiziana de Rogatis, Elena Ferrante e il Made in Italy. La costruzione di un immaginario femminile e napoletano, in Made in Italy e Cultura. Indagine sull’identità italiana contemporanea, Palermo, Palumbo, 2015, pp. 288-317.

Modellizzazioni del repertorio linguistico di Napoli sono illustrate in N. De Blasi, Per la storia contemporanea del dialetto nella città di Napoli, in «Lingua e Stile», 37, 2002, pp. 123157; su dialetto e italiano di Napoli si può leggere ora N. De Blasi, Storia linguistica di Napoli, Roma, Carocci.

Analisi degli impieghi di italiano e dialetto nei romanzi e nelle narrazioni di Ferrante, Montesano, Rea, Saviano, Starnone sono in P. Bianchi, La funzione del dialetto nella narrativa di autori campani contemporanei, in La città e le sue lingue, Napoli, Liguori, 2006, pp. 267-280; C. De Caprio, La città lebbrosa”, la smorta terra e il mare. Dimensioni linguistiche dello spazio urbano tra fictio e realtà. “Di questa vita menzognera” e “Magic People” di Giuseppe Montesano, Dante & Descartes, Napoli, 2006; per Saviano v. M. Dardano, Stili provvisori. La lingua nella narrativa italiana d’oggi, Roma, Carocci, 2010, pp. 65-73.

Il ruolo di molti dei testi qui esaminati negli assetti della narrativa italiana è discusso da G. Simonetti, I nuovi assetti della narrativa italiana (1996-2006), in «Allegoria», 57, 2008, pp. 95-136.

Per la rappresentazione del femminile e del materno in Ferrante ho tenuto presente S. Milkova, Mothers, Daugheters, Dolls. On Disgust in Elena Ferrante’s “La figlia oscura”, in «Italian Culture», 31/2, 2013, pp. 91-109; Tiziana de Rogatis, L’amore molesto di Elena Ferrante. Mito classico, riti di iniziazione e identità femminile, in «Allegoria», 69-70, 2014, pp. 273-308 e i saggi raccolti in The Works of Elena Ferrante: Reconfiguring the Margins. History, Poetics and Theory, New York, Palgrave Macmillan, 2016 (si veda, per l’attenzione alla categoria del post-umano, il contributo di Enrica Maria Ferrara).

Un accesso alle questioni relative all’autofiction, alla dicotomia fiction/non-fiction e allo statuto della voce narrante nella produzione di Saviano è offerto da C. De Benedetti, F. Petroni, G. Policastro, A. Tricomi, Roberto Saviano, “Gomorra”, in «Allegoria», 57, 2008, pp. 273-308; A. Casadei, Realismo e allegoria nella narrativa italiana contemporanea, in Finzione cronaca realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, a c. di H. Serkowska, Massa, Transeuropa, 2011, pp. 3-21 e R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, il Mulino, 2014, in particolare pp. 190-195; con attenzione al passaggio di medium, v. ora M. Moccia, Raccontare Gomorra, in «Between», 5/10, 2015; per aspetti della relazione con lo spazio e l’ambiente, v. N. Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Roma, Carocci, 2017, pp. 157-162.