Né mandolini né kalashnikov. Appunti sul cinema napoletano

di Armando Andria

L’ultima declinazione del tradizionale film natalizio di produzione De Laurentiis avrebbe dovuto intitolarsi Natale a Gomorra – poi virato in Natale col boss – chiudendo, dal punto di vista cinematografico, l’anno iniziato con la morte di Francesco Rosi (era il 10 gennaio). Posta così, il 2015 potrebbe dirsi l’anno simbolo di una stagione sciagurata per il cinema napoletano, che da un lato vive la perdita del figlio più nobile della propria storia, dall’altra conosce un nuovo (fin troppo prevedibile) stadio della esondazione incontrollata del marchio Gomorra (poco importa la “correzione” dell’ultimo minuto). Una riduzione provocatoria, ma nemmeno tanto estranea alla realtà se si pensa alla produzione all’ombra del Vesuvio dell’ultimo decennio e alla “polarizzazione del discorso” che essa ha conosciuto. Ma procediamo con ordine.

Il grande freddo

Di cosa parliamo, innanzitutto, quando parliamo di cinema napoletano oggi? Il panorama presenta uno sparpagliamento delle forze in campo: non esiste alcun movimento, “scuola” o comunanza d’intenti tra chi fa cinema su e a Napoli in questo scorcio di secolo. La domanda appare dunque lecita, dal momento che è l’esistenza o meno di un movimento a indicare lo stato di salute di una cinematografia e non le sue (eventuali) punte di diamante. E l’unica risposta possibile è che si dovrà parlare qui di film ambientati a Napoli e di film realizzati da autori anagraficamente legati a Napoli (occorrenze che peraltro coincidono nella stragrande maggioranza dei casi).

Il pensiero torna per un attimo allo scenario degli anni Novanta e al gruppo di cineasti ricordati come i Vesuviani: Capuano, Corsicato, De Lillo, Incerti e Martone. Tutti esordienti nella prima metà dei Novanta e accomunati dalla firma collettiva apposta sotto quel film a episodi del 1997, furono gli esponenti di una fase della vita intellettuale e artistica della città che, per quanto disomogenea e contraddittoria, fu di certo vitale. Contraddittoria perché in effetti nei lavori dei cinque e di altri coevi mancava una vera poetica riconoscibile, tanto che lo stesso I vesuviani fu un esperimento forzato e non pienamente riuscito, e di fatto segnò la fine del “movimento”. Tuttavia film come Vito e gli altri (esordio di Capuano nel 1991) e Morte di un matematico napoletano (Martone, 1992) intercettarono il sentimento diffuso ma fino a quel momento sommerso di larga parte della città, smaniosa di stracciare la cartolina in cui era immortalata ed entrare nella possibilità di una auto-rappresentazione sincera. Oltre ai nomi citati, altre forze si unirono al gruppo, generando – e questo fu forse l’aspetto più interessante – uno scambio di esperienze che attraversava con naturalezza altre discipline e arti (basti pensare al teatro, dal quale molti dei protagonisti di quella stagione provenivano).

Oggi chi fa cinema a Napoli lo fa da solo. E da soli – a meno che non si è quei talenti che si collocano con le proprie opere al di sopra della storia, dando l’impressione che sarebbero potuti nascere ovunque e in qualsiasi tempo – è più alto il rischio di soccombere alla moda in atto, di scoprirsi a reiterare il già visto. Si è più deboli. Tanto più che Napoli è una città che “si concede” con estrema disponibilità, offrendo al primo istante, anche allo sguardo dell’osservatore più distratto, tanto le sue miserie quanto le sue primizie.

La solitudine, va aggiunto, è tanto autoriale/creativa quanto produttiva. In assenza di afflati comuni, di slanci ideologici, di manifesti che provino quantomeno a immaginare un “altro cinema”, pure si potrebbe godere, in attesa di tempi migliori, di un sistema che valorizzi l’artigianato presente in città, che metta in connessione gli attori molteplici che, di fatto, “fanno” i film. Niente da fare. A chi far leggere quel soggetto, che ingenuamente reputo geniale, sperimentale, innovativo, che giace nel fondo del mio cassetto? A chi se non allo stesso, solitario produttore illuminato che non ha avuto il tempo di leggerlo l’anno scorso… Ed è così che lo sbarco in città della prima produzione audiovisiva di stampo industriale da molto tempo a questa parte, calata dall’alto con molti mezzi e nessun rapporto col territorio, e perciò assai bisognosa di ciceroni, ha scatenato l’assalto della totalità dei soggetti interessati e provocato un’eco smodata.

Il rinnovo dell’assemblea regionale, seguita alle elezioni dello scorso maggio, ha fatalmente riportato sulle pagine dei giornali il tema dello stato di salute del comparto cinema campano, raccogliendo proposte e parole d’ordine che in realtà già da molti anni circolano nell’ambiente: potenziamento della Film Commission regionale, allestimento di studios nel capoluogo, rinnovata centralità della formazione, impulso alla produzione e alla distribuzione dei titoli locali. Nell’attuale scarsità di risorse che allontana la realizzazione dei possibili interventi, il dibattito non fa che certificare lo stato di fragilità del settore. È in questa debolezza sistemica che prosperano fenomeni come quello di Alessandro Siani (circa 100 milioni incassati dalla manciata di film da lui interpretati dal 2006 a oggi, tutti contraddistinti dal consueto impasto di sketch frusti, location amene e morale buonista); è di questa debolezza che si nutre l’appiattimento di sguardo che ci appare lo spettro più concreto per il nostro cinema.

L’ingiusta distanza

Se per valutare la produzione audiovisiva napoletana di questi anni si incrociano, come ipotetici indicatori di riferimento, il successo commerciale e la penetrazione culturale a breve termine (intesa come passaparola, influenza sul costume, adozione di modi di dire), non ci pare scorretto affermare che due dei lavori centrali siano – eludendo la distinzione tra cinema e tv – Passione e Gomorra, la serie. Di cosa si tratta?

Passione, film di docu-fiction realizzato dall’italoamericano John Turturro nel 2010, è un excursus nella tradizione musicale napoletana attraverso alcune delle più famose canzoni del suo repertorio, fatte interpretare ad artisti quali Peppe Barra, Lina Sastri, James Senese, Enzo Avitabile e Raiz, e messe in scena come dei videoclip. Molte performance sono convincenti, altre meno, il film è tutto impegnato nella iterazione dell’idea che – per dirla con la sinossi ufficiale – “Napoli è un juke-box, il più grande del mondo”. Tra una performance e l’altra, l’autore si inserisce con presunte folgoranti verità sulla città e la sua anima («A Napoli, nonostante tutto, si sente il bisogno di cantare»). In sostanza, un’operazione di livello professionale, fatta a uso e consumo di un pubblico internazionale indifferenziato, che si bea della tradizione ed elude qualsiasi problematicità.

Gomorra, di produzione Sky-Cattleya-Fandango, è una delle serie di maggior successo della storia della tv italiana. Una vera macchina da guerra audiovisiva, creata nel solco di Romanzo criminale (con cui condivide l’impronta del creator, Stefano Sollima) per inseguire il modello della serialità statunitense. Tutto in essa “funziona”: l’evoluzione dei personaggi, l’abilità registica, la credibilità del contesto rappresentato, la tensione narrativa. Lo sguardo è interno alla faida di camorra, nella quale la serie si inoltra con crescente adesione, mostrandone sempre più dappresso la cruda violenza, senza scampo, senza redenzioni. Tutto, fondamentalmente, già visto.

Questi due prodotti (il termine, per quanto antipatico, è in questo caso adeguato; tanto più che anche Passione mostra una struttura seriale o comunque serializzabile: le performance di cui il film è composto potrebbero ripetersi ad libitum) sembrano quasi inscenare un confronto a distanza tra le due versioni di Napoli codificate nell’immaginario collettivo, dentro e (soprattutto) fuori la città: l’oleografia versus la brutalità che si agita nelle viscere. Una dicotomia potente, dentro la quale, come in una morsa, rimangono strette molte delle produzioni napoletane di questi anni. C’è la produzione avventurosa e low-budget che rivendica il pauperismo come cifra politica ed estetica, incarnata dalla factory messa su da Gaetano Di Vaio con Figli del Bronx. Meritoriamente, essa ha partorito l’esordio e l’opera seconda di Guido Lombardi (Là-bas e Take Five), Sotto la stessa luna di Carlo Luglio e alcuni documentari, tra cui i più felici sono proprio quelli firmati dal produttore-factotum (Il nostro Natale) e quelli di Romano Montesarchio (Ritratti abusivi). Parole chiave: povertà di mezzi, periferia materiale ed esistenziale, patente crisi del tessuto sociale ed economico descritto.

Ci sono poi gli sguardi evasivi, che rifuggono il rapporto con il contemporaneo rifugiandosi in una nostalgia passatista (La kryptonite nella borsa, di Ivan Cotroneo), nell’accarezzamento di un altrove mistico contro l’eterno diluvio del presente (il cartoon L’arte della felicità, di Alessandro Rak), nel passatempo cinefilo che diverte e redime (Song ’e Napule, dei Manetti Bros.). C’è il solido De Angelis, dai modelli cinematografici di sicuro affidamento, peraltro declinati non senza perizia compositiva sia in Mozzarella Stories che in Perez. È, il suo, un tentativo di aprire un sempre abortito “discorso di genere” che si muova al confine con l’autorialità. È lo stesso solco di un altro giovane esordiente, Prisco (Nottetempo), e dell’ultimo Incerti (Neve); è quello in cui finiscono per ricadere anche altri sulla carta più ambiziosi, come Risi (Fortàpasc), Gagliardi (Tatanka) o D’Angelo (Una notte). Ci sono, ancora, gli autori internazionalmente riconosciuti, piacciano o meno, che dalla città si sono via via distaccati imboccando rotte cinematografiche, a seconda dei casi, istituzionali (Martone), oppure di autorialismo puro e autoreferenziale (Sorrentino).

In linea di principio, né il modello Passione né quello Gomorra – ci si passi ancora la semplificazione – sono esecrabili a priori, in base alla regola aurea che tutto interessa alla macchina da presa e tutto può spiacerle, dipende sempre dal “come”; che nel nostro caso è una questione di prospettiva, di punto di vista, di posizione della macchina da presa stessa. Quello che grava su molto cinema napoletano odierno sembra essere un vizio di forma di stampo “turistico”: è la distanza siderale con cui si concepisce la rappresentazione, come se un film fosse questione di una formula chimica. In altre parole, il problema non è quello di rappresentare Napoli come, alternativamente, sede elettiva della violenza più selvaggia o stabile palcoscenico a cielo aperto del folklore; bensì di significare i luoghi e gli uomini che li abitano in rapporto agli stereotipi che da sempre quelli si vedono assegnati, barricandosi dietro presunti realismo e verosimiglianza (“le cose stanno così”) per fare, in buona sostanza, spettacolo dello stereotipo. Il brand Napoli.

È un modo di intendere il legame con la città di tipo predatorio: si prende quello che serve e nulla si restituisce. Non bisogna scandalizzarsi, tanto cinema si è costruito così, anche molto di quel cinema che ha fondato il nostro immaginario. Ma non è forse più interessante entrare nei luoghi spogliandosi dei pregiudizi, conoscerli e riprenderli come per la prima volta? Non è più affascinante, piuttosto che lavorare sul già visto e dedicarsi alla conferma di immaginari e significati consolidati, cercare vie nuove, scoprire ciò che si muove nel profondo?

Proprio in un territorio così esposto (in tutti i sensi), dovrebbe avvertirsi l’urgenza di sfondare il muro del conformismo per capire quali immagini, nella messe a cui i nostri occhi sono continuamente sottoposti, siano quelle davvero necessarie. Jean-Marie Straub, regista francese dalla poetica radicale, fautore di un cinema che nega la sua veste di spettacolo e interroga continuamente la natura dell’immagine, dice di fare film non per gli spettatori ma per i cittadini. Adattiamo il concetto al nostro campo e proviamo a dire (a verificare) se un certo cinema che continua a porsi il problema di stracciare la cartolina, non sia per forza di cose un cinema che pratichi la dedizione filmica al luogo – Napoli – come parte di una più completa (e concreta) esperienza esistenziale e civile.

Dalla location al luogo

Nel 2008, quando appare nelle sale il film ispirato al libro Gomorra (titolo al quale per forza di cose ci riconducono molti dei nostri ragionamenti), Matteo Garrone è al culmine di un personale percorso artistico di avvicinamento a Napoli. Romano, ha fino a quel momento girato e ambientato interamente nella capitale un solo film (Estate romana, 2000), per il resto mostrando una preponderante attrazione (se si esclude il nord est di Primo amore) verso il sud: dalla periferia meridionale di Roma raccontata in Terra di mezzo (1996), passando per la spiaggia di Sabaudia dove termina Ospiti (1998), poi giù per il litorale casertano de L’imbalsamatore (2002), fino alla Napoli popolare di Oreste Pipolo, fotografo di matrimoni (1998). Opere di studio, dalle forme ibridate, in cui il film stesso è momento di conoscenza – sociale, antropologica, urbanistica – per chi lo guarda ma anche per chi lo fa. Garrone, non a caso, è anche operatore di tutti i suoi lavori, quindi primo spettatore delle immagini partorite dalla sua visione. Film, dunque, che si nutrono del loro farsi, che mettono in scena la loro stessa indagine compiuta attraversando territori sconosciuti.

Quei lavori – che nell’incubo neorealista Reality (2012) troveranno l’ideale compimento – sono ognuno ovviamente autonomo e significante di per sé, eppure visti a posteriori appaiono come la lunga gestazione di un’opera quanto mai ambiziosa, rischiosa e impegnativa quale sarebbe stata poi Gomorra. È questo articolato percorso di avvicinamento che ha consentito a Garrone di calarsi a fondo nell’indagine sulla malavita napoletana, penetrando la superficie per andare in cerca delle radici storiche e politiche del sistema camorristico. Il film mostra le conseguenze macroscopiche ma allo stesso tempo prova a suggerire i meccanismi che stanno alla base dei comportamenti criminali. Se è vero che la proverbiale camera a mano di Garrone ci tiene saldi nel mezzo dell’azione, è altresì vero che il film è sempre pronto a integrare la presa diretta sulla realtà con uno sguardo sistemico: tutti e quattro i segmenti che lo compongono sono focalizzati sul momento cruciale in cui persone comuni si trovano sul confine tra legale e illegale (tra bene e male) e obbligati a scegliere. Altro che i “luoghi dove il male ha un nome antico come la Bibbia…”.

Parlando di cinema come viaggio, viene facile introdurre nel discorso Pietro Marcello. Casertano con un denso apprendistato napoletano, tra la fine dei Novanta e i primi anni Duemila Marcello è tra gli animatori del centro sociale Damm di Montesanto, una delle esperienze di attivismo politico e culturale più interessanti nella storia recente della città. Qui organizza rassegne e laboratori di cinema, contemporaneamente realizza alcuni piccoli documentari (corti e mediometraggi) di osservazione del territorio circostante. Carta (2003) pone l’attenzione su una cartiera in dismissione; Il cantiere (2003) è incentrato sul Ventaglieri, parco pubblico abbandonato dall’amministrazione comunale e rianimato dagli abitanti del quartiere; La baracca (2004) racconta la vicenda di un senzatetto che si accasa sulla scalinata affianco alla stazione di Montesanto. Quasi la radiografia di una Napoli marginale che insiste un passo fuori dal centro, osservata da occhi che non si danno fretta nell’opera di conoscenza.

Con Il passaggio della linea, del 2007, questo sguardo trova la sua piena espressione, attraverso un viaggio a bordo e al ritmo dei treni espressi a lunga percorrenza, quelli da tempo abbandonati a un destino di lenta estinzione. Lungo tutta la penisola da sud a nord e viceversa, in un percorso che va dalla notte al mattino, Marcello incontra mille volti, dialetti, voci e storie; pendolari, giovani, stranieri, anziani vagabondi, lavoratori precari che si mescolano in un viaggio affascinante, in cui il tempo si dissolve per lasciare posto a brevi ritratti di profonda umanità di una comunità posta solitamente ai margini del nostro sguardo.

Dopo il “genovese” La bocca del lupo, del 2009, e un lavoro sul regista armeno Artavazd Pelešjan (Il silenzio di Pelešjan, 2011), l’autore casertano si dedica all’ideale prosecuzione de Il passaggio della linea, e contemporaneamente alla sua opera fin qui più ambiziosa, in un lavoro dal titolo emblematico, Bella e perduta (2015): ancora un itinerario attraverso l’Italia, in cerca stavolta di luoghi e personaggi di eccezionale valore eppure negletti, traditi. Prima tappa, la Reggia di Carditello, straordinario luogo-simbolo, oasi di bellezza e storia a cinquanta chilometri da Napoli, assediata dalla camorra e dalle discariche e difesa da un uomo solo e visionario, il pastore Tommaso Cestrone. La vicenda di Carditello, nelle intenzioni solo il segmento di un film di natura documentaristica, dopo la morte improvvisa di Cestrone nel mezzo della lavorazione, diviene la cornice dentro la quale la realtà più scottante si fonde al fiabesco. Un bufalo-narratore, incline all’autocoscienza, cerca invano di sfuggire al destino deciso per lui dagli uomini; un Pulcinella malinconico cala dal regno dei morti per prendersene cura; insieme attraversano inediti paesaggi silvestri, magici, risalendo dai boschi limitrofi alla Reggia su verso l’Italia centrale, in cerca di una salvezza custodita nel mistero dell’armonia perduta tra Uomo e Natura. Queste due figure, questo improvviso registro sur-reale, invece che indebolirla, potenziano, con la forza della poesia, la sommessa ma precisa invettiva di Marcello: contro la Terra dei fuochi, contro tutti gli attentati che l’uomo compie nei confronti della Natura e quindi di se stesso, il film sta dalla parte degli ultimi, di chi è senza voce, di chi in questo mondo è destinato al macello.

Tornando al Damm, a Montesanto e alla fine degli anni Novanta, Pietro Marcello non è l’unico filmaker a frequentare quei luoghi con la videocamera spesso accesa. Prima ancora che Marcello Sannino, con Corde (2009), si dedichi al ritratto, pieno di sensibilità e pazienza, del giovane pugile Ciro Pariso, Leonardo Di Costanzo ha in mente di realizzare un documentario sugli adolescenti napoletani. Dopo un lungo periodo di osservazione sul campo, identifica il protagonista del suo lavoro tra le strade del quartiere. Lo segue per settimane, tra la scuola, la famiglia e i giochi con gli amici, lo intervista a lungo proprio tra le mura del Damm. Finché il ragazzo – si chiama Antonio – un giorno decide di tirarsi indietro: non si presenta agli appuntamenti, non risponde al telefono. Il film non si fa più. Di Costanzo rispetta la sua volontà e prosegue il proprio percorso autoriale che lo porta a girare gli ottimi A scuola (2003) e Odessa (2006). È ormai uno dei maggiori documentaristi italiani quando, anni dopo, Antonio, ormai adulto, lo cerca: sta per sposarsi, è tempo di finire quel film. Il regista è imbarazzato, il film esiste/non esiste indipendentemente dalla sua volontà.

Questo esemplare punto di crisi del cinema documentario, Di Costanzo lo racconta in Cadenza d’inganno (2011), il titolo che rappresenta – al momento – il suo congedo al genere a cui aveva consacrato fin lì tutto il suo lavoro. Antonio, ribellandosi al ruolo di personaggio, gli ha dimostrato che il documentario pone l’autore e il soggetto dentro una relazione che, per quanto onesta (fair, direbbe il maestro Wiseman), non può sfuggire alla manipolazione, al rapporto di forza determinato dalla macchina da presa. Tanto più il regista percepisce lo snodo critico, dal momento che a mostrarglielo è la città a cui ha dedicato ogni suo sforzo di verità: Napoli, ancora una volta, aggrava ogni problema legato alla rappresentazione. Meglio allora saltare il fosso e ribaltare la situazione: se dentro la realtà la quota di manipolazione è diventata insostenibile, l’unica via, riflette Di Costanzo, è quella di insinuare la realtà dentro una struttura di finzione. Da qui L’intervallo (2012), suo prezioso esordio nel cinema narrativo: due ragazzini, un ambiente e un innesco. Un documentario girato con le armi della fiction.

Il cinema come r(iv)elazione

Complice insostituibile di Garrone, Marcello e Di Costanzo in quasi tutte le imprese citate sopra è Maurizio Braucci. Altro irregolare del cinema, Braucci, prima che sceneggiatore, è scrittore, videomaker ma anche attivista, educatore in scuole di periferia, istituti penitenziari, laboratori teatrali in aree disagiate. Il racconto della marginalità è al centro del suo impegno formativo, così come dei film a cui lavora, anche quelli che nulla hanno a che fare con la città che gli ha dato i natali: si pensi a Piccola patria (2013, di Alessandro Rossetto) e ad Anime nere (2014, di Francesco Munzi). Strenuo sostenitore del legame tra arte e pedagogia, esemplarmente declinato nel decennale progetto di Arrevuoto (ma fondamentale anche per lui è stata l’esperienza del Damm), nel lavoro di Braucci la distanza dal centro, il “vuoto” e l’“invisibilità” della periferia sono visti non come handicap, bensì opportunità di conoscenza: l’ottica è quella di scambio e movimentazione continua dei saperi e delle esperienze tra le due dimensioni, differenti ma non necessariamente opposte, magari persino complementari. Né depredazione, né condiscendenza.

Se la questione cruciale è quella di esiliare dallo schermo la “location” per sostituirvi il “luogo”, si tratta in buona sostanza di ordire la costruzione del senso, movente di ogni opera creativa, non a scapito dei soggetti rappresentati, ma insieme a loro. Persino azzardandone il passaggio dietro la macchina da presa. È quello che avviene, letteralmente, in alcune sequenze del documentario Le cose belle (2014), in cui Agostino Ferrente e Giovanni Piperno documentano la vita di quattro ragazzi della Napoli popolare riprendendo il racconto di quelle vite da loro stessi avviato nel 1999 in un altro documentario, Intervista a mia madre. I due autori incorporano nelle sequenze girate nel presente le immagini realizzate quindici anni prima, in cui agli intraprendenti ragazzini era affidata la videocamera per raccontarsi in prima persona e restituire senza filtri la propria visione e le proprie aspettative rispetto alla vita.

Forse si tratta solo di frammenti impazziti di cinema (pensiamo anche ad alcuni stralci di NapolIslam, il documentario di Ernesto Pagano sui convertiti napoletani all’Islam, sanamente destabilizzante per la spontaneità delle testimonianze), i quali però finiscono per lavorare in profondità più di opere che ambiscono alla sistematizzazione del racconto, all’onnicomprensività dell’analisi; più, per esempio, dell’intera, ambiziosa tetralogia documentaria che Vincenzo Marra, nell’arco degli ultimi dieci anni, ha dedicato alla città. L’udienza è aperta, Il grande progetto, Il gemello, L’amministratore sono opere così “composte” nella ricostruzione non-finzionale – e tutta “scritta” – della Napoli contemporanea attraverso alcuni luoghi di paradigmatica pregnanza (il Tribunale, l’area di Bagnoli, il carcere di Secondigliano, le case dei ricchi e quelle dei poveri), da risultare incapaci di mostrarci qualcosa che non sapevamo già.

Ciò che invece urge, saltando idealmente in sella a quei frammenti impazziti, è un cinema “cospirativo” rispetto alla tradizionale egemonia dell’autore, di cui Il segreto (2013) di cyop&kaf appare l’esperienza più avanzata. Fin dal titolo: che, nell’individuare il luogo nascosto tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli in cui i piccoli protagonisti accatastano e custodiscono la legna raccolta in giro per la città in vista del Cippo, esplicita un sentimento di intimità da coltivare e proteggere insieme. In fondo, portare sullo schermo lo sguardo dei bambini sul mondo, eludendo per una volta la mediazione degli adulti – ciò che il film mira a fare –, costituisce l’opera di disvelamento di un mistero, per raccontare il quale è necessario che autore e soggetto della rappresentazione letteralmente cospirino, respirino insieme. E a vedere il film non si può dubitarne: la camera di cyop&kaf, rigorosamente a mano, si muove in simbiosi con il moto instancabile dei ragazzini, evidenziando una prossimità e un’adesione vicine alla mimetizzazione. L’occhio è tutt’uno con il corpo, messo in gioco in quanto parte integrante del patto segreto che vincola i cospiratori. Le immagini che arrivano così dallo schermo sembrano venire da un altro tempo: nuove, mai viste; eppure arcaiche, primitive. Dietro, molto prima che la camera si accendesse, ci sono le tante ore passate ad ascoltare e osservare i ragazzi; le saracinesche imbrattate insieme per Quore Spinato; la condivisione di un territorio, i Quartieri Spagnoli, Napoli, che va ben oltre le letture preconfezionate, i buonismi e le visioni apocalittiche. Dietro, oltre ogni retorica, c’è la vita.