L’economia sommersa e il sistema della moda

di Giuseppe D'Onofrio

Il termine economia sommersa fa riferimento a quell’insieme di attività finalizzate alla produzione di beni e servizi legali, ma svolte contravvenendo a norme fiscali e contributive al fine di ridurre i costi di produzione. Si tratta di un’economia che interagisce con quella regolare e che presenta al suo interno livelli totali o parziali di irregolarità rispetto a una serie di obblighi quali l’iscrizione al registro delle imprese, gli adempimenti fiscali e contributivi, la regolarità della posizione contrattuale dei lavoratori, le autorizzazioni in materia di tutela di sicurezza e salute sul luogo di lavoro. Insomma, l’economia sommersa rappresenta “un’economia strettamente intrecciata con l’economia formale al punto che, se venisse a mancare, l’economia regolare entrerebbe in crisi entro breve tempo[1]”. La presenza di una quota consistente di economia sommersa in diversi settori produttivi e occupazionali – dalla manifattura ai servizi, dalle costruzioni all’agricoltura – e la sua capacità di interagire con processi formali di regolazione del lavoro e dell’attività economica rende complesso qualsiasi tentativo di tracciare confini netti e definiti tra l’universo formale e informale della nostra economia.

Il sommerso economico

In Italia, secondo i dati forniti dall’ultimo Rapporto Istat sull’Economia non osservata[2] relativi all’anno 2013, il valore aggiunto generato dall’economia sommersa vale 190 miliardi di euro, pari all’11,9% del valore del Pil. Il 47,9% di tale valore aggiunto deriva dalla componente relativa all’attività sotto-dichiarata dagli operatori economici, il 34,7% dal lavoro irregolare e il 9,4% da altre componenti (fitti in nero, mance, ecc.). In alcuni settori l’incidenza dell’economia sommersa risulta piuttosto elevata: nelle Altre attività dei servizi incide per il 32,9%, nel settore Commercio, trasporti, attività di alloggio e ristorazione per il 26,2% e nel settore delle Costruzioni per il 23,4%. Il fenomeno della sotto-dichiarazione risulta particolarmente elevato nel settore dei Servizi professionali (con un’incidenza del 17,5%), nelle Costruzioni (14,2%) e nel Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (13,9%). All’interno dell’industria, l’incidenza risulta più marcata nelle attività economiche connesse alla Produzione di beni alimentari e di consumo (8,3%) e molto contenuta in quelle di Produzione di beni di investimento (2,7%). La componente di valore aggiunto generata dall’impiego di lavoro irregolare, invece, è particolarmente elevata nel settore degli Altri servizi alle persone (21,7%), dove è principalmente connessa al lavoro domestico, nell’Agricoltura, silvicoltura e pesca, dove incide per il 15,4%, e nelle Costruzioni, dove incide per il 9,1%[3].

Il sommerso da lavoro rappresenta quella componente di economia sommersa nella quale rientrano tutte quelle attività da lavoro svolte, nelle forme del lavoro subordinato o indipendente, nell’inosservanza totale o parziale della regolamentazione statale e sindacale relativa alle condizioni di lavoro.

L’ultimo rapporto annuale dell’Istat sulla situazione del paese prova a fornire una stima del lavoro irregolare incrociando i dati sulla rilevazione delle forze di lavoro con quelli di natura amministrativa per il triennio 2010-2012. Dall’analisi emerge come in Italia un lavoratore su dieci sia irregolare. Oltre la metà dei circa 2,3 milioni di lavoratori irregolari stimati in media nel triennio 2010-2012 sono uomini, più dell’80% sono cittadini italiani, oltre la metà in un’età compresa fra 35 e 64 anni; due terzi sono lavoratori dipendenti, quasi la metà sono l’unico percettore occupato della famiglia, e più della metà, il 55,7%, lavora nelle regioni del centro nord. Il restante 44,4% del totale degli occupati irregolari a livello nazionale lavora, invece, nel Mezzogiorno e, secondo i dati forniti dallo stesso rapporto, il 14% di essi risulta concentrato nella sola Campania, regione in cui l’incidenza dell’occupazione irregolare sul totale degli occupati è del 18,9%[4].

Il sistema moda nella provincia di Napoli

Le aziende che operano nell’ambito del sommerso presentano, come detto in precedenza, “diversi gradi di irregolarità che spaziano dall’invisibilità assoluta, dove la mancata osservazione e rilevazione riguarda tanto l’attività economica quanto la forza lavoro, al sommerso parziale in cui l’azienda ‘sotto-dichiara’ qualche esito del suo processo gestionale o il lavoratore una parte della sua prestazione[5]”.

Nell’analisi delle caratteristiche assunte dal sommerso economico a livello provinciale, la difficoltà di reperire stime quantitative articolate per singole province ci induce necessariamente a procedere con una metodologia di indagine finalizzata a comprendere gli aspetti qualitativi del fenomeno piuttosto che alla rilevazione della sua dimensione quantitativa.

Nella provincia di Napoli in alcuni comparti produttivi, in particolare quello manifatturiero, il problema del sommerso risulta da diversi decenni strettamente connesso ai processi di esternalizzazione praticati da alcune grandi imprese al fine di ridurre i costi di produzione. Emblematico, come documentato da numerosi studi e ricerche, risulta il caso del settore della moda, in cui la maggior parte delle imprese nazionali struttura il proprio business mantenendo all’interno dell’azienda solo le fasi di disegno e marketing del prodotto, appaltando invece la manifattura ad altre imprese specializzate nella produzione per conto terzi. È proprio sul territorio della provincia partenopea che, da più di un trentennio, risiedono moltissime di queste imprese specializzate nella produzione di abbigliamento, borse e calzature per conto di grandi marchi della moda italiana, e nelle quali si realizza un ampio ricorso alla sotto-fatturazione e al lavoro irregolare. Inoltre, molte di queste aziende contoterziste si avvalgono, nell’attività produttiva, di rapporti di fornitura con altre imprese spesso invisibili, cioè non registrate presso la Camera di Commercio, che impiegano quote consistenti di manodopera irregolare.

La tendenza delle imprese contoterziste a ricorrere a loro volta a catene di sub-fornitori è una delle caratteristiche più rilevanti assunte dal settore negli ultimi anni. Questa pratica, definita “sub-fornitura di secondo livello”, vede le imprese che tradizionalmente operavano per conto terzi diventare committenti. In effetti, la propensione dei grandi marchi a concentrarsi sulle attività del core business aziendale (disegno, progettazione, marketing, pubblicità, ecc.) spinge oggi le aziende contoterziste a ricercare sub-fornitori e a organizzare l’intera filiera di produzione. In sintesi, è questa frammentazione del processo produttivo ad alimentare il ricorso al lavoro sommerso e a renderne ancora più complessa la rilevazione.

Nelle grandi città hanno sede i marchi più importanti, che interagiscono con le realtà periferiche, distretti produttivi di diverse regioni italiane, attraverso rapporti di fornitura. Sono soprattutto i distretti delle regioni meridionali a operare per conto terzi. In Campania sono presenti quattro distretti industriali collegati al sistema moda: il distretto delle calzature napoletane, quello tessile-abbigliamento di San Giuseppe Vesuviano, quello tessile di Sant’Agata dei Goti e infine il distretto conciario di Solofra. Secondo uno studio dell’Ires Cgil, in Campania, il sistema moda – inteso come tessile, abbigliamento, concia, pellami, calzature e borse – occupa quasi 17 mila persone e registra la massima concentrazione di imprese nella provincia di Napoli.

A Casalnuovo ho incontrato Pasquale, operaio in un’impresa specializzata nella produzione di pantaloni da uomo eleganti per conto di marchi italiani e stranieri. La sua mansione consiste nel preparare gli accessori da inserire sui capi che vengono lavorati. L’azienda si occupa di taglio, cucitura e confezionamento. Pasquale mi descrive il meccanismo della filiera e le modalità attraverso le quali operano gran parte delle aziende del settore. «L’azienda lavora per conto terzi. Ci sono grosse aziende che ci portano il tessuto e noi lo lavoriamo. Facciamo i capi per loro, con il loro marchio e tutto. Sulla base dei loro modelli, li confezioniamo e li mandiamo a destinazione. Si tratta di solito di abiti eleganti maschili, anche se ultimamente stiamo cominciando a fare anche jeans. Il jeans è diverso perché si punta soprattutto ai negozi. Per esempio, se tu hai un negozio con il tuo marchio, vieni da noi e dici: “A me piace questo pantalone però devi mettere il mio marchio”. E noi te lo facciamo».

Quando chiedo a Pasquale in quale segmento di mercato confluisce la merce prodotta in azienda, mi fa notare che tutto dipende dal tipo di commessa. Si può lavorare sia sulla quantità che sulla qualità, sia con piccoli che con grandi marchi. «Noi facciamo anche capi che vengono venduti a ottocento dollari. Ci sono sarti bravissimi che fanno l’abito. I marchi più conosciuti per cui lavoriamo fanno capo a grandi imprenditori che stanno su altri mercati. Uno dei più importanti è un marchio straniero che ogni anno acquista qualcosa come settantamila pantaloni. Sono pantaloni su cui c’è poco guadagno ma si gioca molto sulla quantità. Ogni mese, dalla fabbrica partono quattro container di pantaloni. Pensa che un solo container ne contiene quattromila. Sedicimila pantaloni al mese. Questa è una commessa che viene rinnovata ogni anno e sono quasi sei anni che lavoriamo per loro. Poi ci sono anche altri marchi italiani di una certa qualità».

Pasquale in fabbrica ci è arrivato un anno e mezzo fa. Ha fatto diversi mestieri nei suoi dieci anni di lavoro, ma gli unici contratti che ricorda sono quello stipulato con i carabinieri nel 2003, della durata di dodici mesi, e quello con Trenitalia nel 2004, della durata di tre mesi. «Io lavoro dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio e guadagno trentacinque euro al giorno. Sono ottocentocinquanta al mese, compresa la mezza giornata del sabato che te la pagano intera. Poi se non vai a lavorare, o per malattia o per altri motivi, non guadagni proprio niente».

Per comprendere in che modo il sommerso si inserisce all’interno del sistema della moda non si può prescindere da un’analisi dell’articolazione della filiera produttiva all’interno del settore. Prendiamo in esame i meccanismi di funzionamento del settore calzaturiero. Operazioni quali taglio, realizzazione della tomaia, orlatura, assemblaggio, vengono date in appalto all’esterno dell’azienda. Il sub-committente riceve la commessa direttamente dal grande marchio e stabilisce ulteriori sub-appalti con aziende sub-fornitrici. Si tratta di enormi volumi di produzione esternalizzata che sfuggono alla tracciabilità finendo in imprese dove i rapporti di lavoro sono spesso disciplinati da forme di regolazione informale. Blocchi di produzione incontrollabili, sia sotto il profilo dell’attività economica che della forza lavoro, poiché i marchi non esercitano alcun tipo di controllo né sul sub-committente né sulla filiera.

Le cause del ricorso da parte di queste piccole aziende al lavoro sommerso sono da ricercare nella frammentazione della filiera produttiva, nell’instabilità della domanda derivante dalla stagionalità della produzione e, infine, nella pressione concorrenziale a cui queste imprese sono sottoposte da parte dei grandi marchi. Nelle aziende sub-fornitrici i livelli salariali e le ore di lavoro sono fortemente variabili sulla base della regolarità contrattuale: dai lavoratori in nero con una paga che non supera gli 800 euro mensili e con orari di lavoro che spesso superano le otto ore al giorno, fino a quanti sono assunti con contratti atipici, che spesso si collocano nell’area del lavoro grigio, con una paga mensile da 1.000 euro o più, e con orari di lavoro di gran lunga superiori ai limiti previsti dal contratto stipulato o con una retribuzione nettamente inferiore a quanto dichiarato in busta paga.

L’economia sommersa continua a rappresentare – facendo leva sulla riduzione del costo del lavoro attraverso il ricorso alla sotto-fatturazione e al lavoro irregolare – lo strumento maggiormente utilizzato dalle imprese per incrementare i propri profitti. Essa rappresenta una componente organica del sistema economico dell’intero paese e mostra una notevole capacità di adattamento al mutamento delle forme e dei modelli di organizzazione del lavoro. Tuttavia, ciò, non può e non deve rappresentare in alcun modo un ostacolo al tentativo di riportare le relazioni economiche e di lavoro che la caratterizzano nell’universo della regolamentazione formale.

[1] Gallino L., Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Bari, 2007, p. 10.

[2] Il concetto di Economia non osservata (Noe, acronimo inglese di Non-observed economy) fa riferimento a tutte quelle attività economiche che, per motivi differenti, sfuggono all’osservazione statistica diretta. La Noe si articola in tre distinte componenti: l’economia sommersa, l’economia illegale o criminale e l’economia informale. In questa sede si prenderà in esame solo la prima componente.

[3] Istat, Statistiche Report, L’Economia non osservata nei conti nazionali. Anni 2011-2013, Roma, dicembre 2015.

[4] Istat, Rapporto annuale 2015. La situazione del paese, Roma, maggio 2015.

[5] Thomas A., “Effetti e contingenze dell’economia sommersa nella prospettiva dello sviluppo integrale delle aziende”, in Ampiezza e Dinamiche dell’Economia Sommersa e Illegale, Rassegna Economica – Studi e Ricerche per il Mezzogiorno, n. 1/2013, p. 248.