Come il mondo guarda Napoli. Il caso dell’emergenza rifiuti

di Nick Dines

A partire dai primi mesi del 2015, il quotidiano inglese The Guardian ha avviato la pubblicazione periodica di un compendio sulle città più straordinarie al mondo, tra cui la più fredda, la più antica, la più povera, la più verde, la più ventosa, la più sicura, la più isolata, la più radioattiva, la più vulnerabile e la più iniqua. Questo elenco di “Città estreme” conferma la propensione della stampa neoliberale per i superlativi e le classifiche e, allo stesso tempo, rispecchia l’interesse crescente per le città, non solo come destinazioni turistiche, ma in quanto cuori pulsanti della vita sociale e culturale, utili a mappare un mondo sempre più post-nazionale.

Allargando il fuoco del riflettore sulle città del pianeta, l’elenco finisce, quasi inavvertitamente, per disarticolare l’idea di metropoli moderna come nozione fondamentalmente occidentale. Non a caso, tra le città più pulite c’è Kigali, capitale del Rwanda (dove tutti i residenti abili al lavoro tra i diciotto e i sessantacinque anni sono chiamati, una volta al mese, a prendere parte alle “giornate della pulizia”); tra le più costose c’è Luanda in Angola (dove i petroldollari e la comunità degli addetti occidentali all’industria petrolifera hanno fatto impennare i prezzi); mentre le città più stressanti includono il Cairo (dove il traffico è cronicamente congestionato), ma anche Miami (sistematicamente soggetta a inondazioni).

Un posto nel mondo

Napoli non è stata ancora nominata in tale compendio, né alcuna città italiana appare nella serie “Una storia delle città in cinquanta edifici”, recentemente completata dal quotidiano inglese; eppure, l’inventario degli edifici include la stazione di servizio Fiat-Tagliero costruita dagli italiani negli anni Trenta ad Asmara. Facendo una ricerca d’archivio nella sezione Città del sito internet del quotidiano, non compaiono, negli ultimi anni, articoli su Napoli; è più probabile trovarne nella sezione Viaggi, Europa, oppure, data la crescente fama internazionale di Elena Ferrante, in Letteratura[1]. Quest’assenza sembra suggerire che Napoli non sia poi così eccezionale come i suoi detrattori e, per converso, i suoi sostenitori spesso la dipingono; né la città sembra avere rilevanza nei dibattiti contemporanei sui processi urbani (almeno stando a The Guardian). Piuttosto, Napoli deve affannarsi per farsi largo in un mondo di città, rispetto al quale ciascuna di esse – si tratti di Oslo o Parigi, Kigali o il Cairo – può assumere il ruolo di riferimento esemplare.

Nonostante la perdurante retorica sulla sua unicità, napoletani e visitatori hanno sempre fatto un raffronto tra Napoli e altri luoghi. I termini di ogni comparazione sono inevitabilmente inquadrati in cornici ideologiche. Per esempio, il desiderio di certa borghesia napoletana che la città venga paragonata a Stoccolma piuttosto che a Mumbai, dice di più sull’idea di Europa che appartiene al ceto medio cittadino di quanto riveli sulle reali condizioni della città.

Le giustapposizioni geografiche, peraltro, possono risultare funzionali a fini eterogenei. Si prenda, per esempio, l’associazione tra Napoli e l’Africa che ricompare a intermittenza da almeno due secoli. Certo, essa è stata talvolta evocata per avanzare l’idea che la città, con il suo hinterland, fosse di ostacolo al progresso della nazione. Ne sono un esempio le parole del primo governatore “forestiero” di Napoli dopo l’unità d’Italia, il romagnolo Luigi Carlo Farini, mentre percorreva la Terra di Lavoro: “Altro che Italia! Questa è Africa: i beduini a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile”. È però in un’accezione diversa che il filosofo tedesco Walter Benjamin e la regista lettone Asja Lacis paragonano la vita comunitaria che permea le strade di Napoli con “il kraal degli ottentotti[2]”. Quel che esprimono è piuttosto la fascinazione per una città capace di conservarsi come alternativa liberatoria alla modernità del nord Europa. E ancora diverso è il senso in cui un migrante di una piccola città del Benin, che ho incontrato in una tappa del suo viaggio verso nord alla fine degli anni Novanta, si riferiva a Napoli come alla “Lagos d’Europa”, indicando come intimamente connessi gli aspetti seduttivi e insieme spaventosi che caratterizzano entrambe le città.

Le rappresentazioni di Napoli sono dunque mutevoli e non possono essere ricondotte a un insieme di stereotipi o pregiudizi “nordisti”. Per esempio, analizzare come la stampa internazionale parla di Napoli è un utile esercizio per riflettere sul posto che le viene assegnato nel  mondo. Ne vale la pena, se non altro, per il fatto che, mentre i commenti denigratori pronunciati durante i talk show della Rai scatenano reazioni immediate, quasi nessuna attenzione è riservata alle modalità con cui i media stranieri riportano, o più spesso travisano, fatti che riguardano Napoli.

Non è stato sempre così. Tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo (periodo a cui spesso viene ricondotta l’origine di molti luoghi comuni sulla città) era usuale replicare a descrizioni superficiali o faziose della città contenute nelle guide o nei diari del Grand Tour. In alcuni casi, i visitatori stranieri, appartenenti a élite di alto rango, venivano poi indotti a modificarle o a integrare le edizioni successive[3].

Nel contesto globalizzato dell’informazione odierna, molti dei temi caldi che riguardano le città non hanno alcuna eco al di là dell’ambito locale o nazionale. E questo vale per Napoli, così come per la maggior parte delle città in giro per il mondo. Si prenda, per esempio, la morte del giovane Davide Bifolco per mano di un carabiniere nel settembre 2014; nonostante le polemiche a livello nazionale – e i parallelismi con i disordini razziali di Ferguson, di alcune settimane precedenti –, la notizia non è stata ripresa da nessuna delle maggiori testate straniere. Certo, gli Stati Uniti occupano una posizione preminente nei media mondiali, e la violenza della polizia e il razzismo suscitano maggiore interesse quando riferiti a quel contesto. Nel XVIII secolo Napoli esercitava in Europa un’influenza molto maggiore, forse paragonabile alla reputazione di cui gode oggi New York a livello globale. Oltre che destinazione ambita, Napoli era tra le più grandi città d’Europa quando capitalismo e illuminismo cominciavano la loro ascesa. Essa ha avuto, perciò, un ruolo chiave nel trasformare la mappa concettuale del continente; ma non in quanto portatrice di una nuova urbanità, bensì di una alterità arretrata rispetto all’Europa, prima, e all’Italia, più tardi. Una volta venuto meno il primato internazionale, quest’immagine di arretratezza si è sedimentata in un archivio culturale che, nelle occasioni in cui la città varca la soglia d’interesse dei media stranieri, viene rivisitato per dare un senso agli eventi d’attualità.

Rappresentazioni di una crisi

Nell’ultimo decennio Napoli è stata proiettata sul palcoscenico internazionale soprattutto durante la crisi dei rifiuti, che tra il 2007 e il 2011 ha fornito al mondo un approvvigionamento regolare di notizie drammatiche sulla città[4]. Date le dimensioni della crisi, non sorprende che essa abbia resuscitato una gamma di stereotipi culturali – come il vecchio adagio “vedi Napoli e poi muori”, particolarmente caro alla stampa inglese – o l’immagine di una città irrimediabilmente perduta, anche per l’interesse suscitato dalla camorra dopo la faida di Scampia e la popolarità di Roberto Saviano sulla scena internazionale. Tali stereotipi – che si ritrovano anche nella stampa italiana, talvolta ancora più enfatizzati – più che come descrizioni potenzialmente diffamatorie della napoletanità, risultano interessanti per il modo in cui contribuiscono a costruire una specifica narrazione della crisi. La bassa qualità della copertura che la stampa internazionale ha dato alla crisi dei rifiuti consegue, infatti, alla riproposizione di convinzioni errate e all’omissione di elementi fondamentali. In questa analisi, accanto ai maggiori quotidiani liberal europei e statunitensi, bisogna includere la stampa di nazioni emergenti come il Brasile, la Cina e l’India.

Le ragioni della crisi sono state affrontate dalla stampa mondiale in maniera frettolosa, concentrandosi su fatti apparentemente incontestabili: le discariche erano piene, gli inceneritori incompiuti e le proteste della popolazione locale un ostacolo al progresso. Inoltre, i giornali hanno in genere confuso il collasso del sistema cittadino di smaltimento dei rifiuti con la diversa questione dello smaltimento dei rifiuti tossici e, soprattutto, hanno additato le responsabilità della camorra per ogni problema. Allo stesso tempo, la stampa internazionale si è astenuta da uno sforzo di comprensione del contesto economico, politico e giuridico della crisi; elementi chiave sono stati ignorati, come il ruolo del gruppo Impregilo, che si è aggiudicato l’appalto sullo smaltimento; le sovvenzioni canalizzate dal comitato governativo Cip6 verso gli inceneritori e lo stoccaggio di migliaia di eco-balle a cielo aperto nei dintorni della città.

All’opposto, diagnosi apocalittiche sulla “malattia incurabile di Napoli” (come definita da un giornalista inglese[5]) sono state condite con la percezione di un disordine diffuso e con i risultati allarmanti di ricerche mediche. Le proteste della popolazione locale contro le discariche e gli inceneritori sono state descritte come manifestazioni condizionate dalla criminalità organizzata o come fenomeno Nimby, ostacolo a una soluzione razionale della crisi. Poco importa che i conflitti sui rifiuti abbiano ricevuto la copertura mediatica più ampia tra le proteste che hanno interessato l’Europa meridionale nell’ultimo decennio; diversamente dagli Indignados e dai movimenti anti-austerità in Spagna e Grecia, gli eco-attivisti napoletani non sono stati inclusi nella narrazione globale delle insurrezioni nella regione euro-mediterranea.

Ma come è possibile che questa versione dei fatti sia divenuta dominante a livello planetario? Si possono individuare tre fattori convergenti. In primo luogo, la copertura della crisi dei rifiuti fornisce un esempio da manuale su come le notizie estere vengano riprodotte una volta che attraversano i confini dei media nazionali: l’apice di una crisi in una città europea è un elemento sufficientemente negativo e inequivocabile da meritare l’attenzione globale; in questo senso, i cumuli di eco-balle, al di là dalle loro dimensioni scenografiche, avrebbero messo a rischio la leggibilità della crisi.

In secondo luogo, la depoliticizzazione della crisi dei rifiuti riflette ciò che il geografo belga Erik Swyngedouw ha definito come “il consenso ambientalista post-politico[6]”, per cui il riconoscimento del carattere sistemico delle questioni è precluso a favore di soluzioni tecnico-manageriali. Simili visioni hanno bisogno di un nemico chiaramente identificabile (in questo caso il crimine organizzato) che possa offrire una soluzione semplice per aggirare le problematiche politiche e strutturali in gioco. Proprio come i viaggiatori e narratori inglesi, francesi e tedeschi del XVIII, rifacendosi a Montesquieu, utilizzavano il clima caldo per spiegare la stravaganza e l’accidia dei napoletani, così oggi i giornali inglesi, francesi e tedeschi, ma anche argentini, cinesi e indiani, insistono sul crimine organizzato come “super-determinante” della crisi dei rifiuti. Raramente vengono fornite spiegazioni ulteriori sul come o il perché la camorra influenzi il ciclo dei rifiuti: la sua semplice menzione assolve alla funzione di convincimento. Una cosa è chiara: bisogna liberarsi della camorra perché la crisi della città possa trovare una soluzione legittima e tecnicamente plausibile.

Il terzo fattore è dato dal fatto che, sebbene abbia avuto luogo in una nazione occidentale avanzata, la crisi ha rivelato al mondo una città usa alle avversità (il colera, il terremoto, la camorra), con un lungo pedigree che la apparenta con la sporcizia e il disordine. Per quale altra ragione altrimenti The Guardian o Le Monde avrebbero bollato come incivili e irrazionali le proteste contro l’inceneritore di Acerra, mentre nello stesso periodo la protesta di Guangzhou in Cina veniva vista come un segnale incoraggiante di democrazia dal basso? Perché nessun giornale ha fatto menzione dell’Impregilo in relazione alla crisi dei rifiuti, mentre molti degli stessi quotidiani, da Süddeutsche Zeitung al New York Times, hanno riferito del suo coinvolgimento in progetti controversi in altre parti del mondo (inclusa l’Italia)?

La crisi dei rifiuti ha rivitalizzato il paradigma del Grand Tour: Napoli è stata nuovamente dislocata all’estremità, se non al di fuori, della mappa della “normalità” europea; con la differenza che oggi la città è anche dissociata dalle rotte della mondanità globalizzata. E ancora, indipendentemente da come si sia evoluta la situazione in anni più recenti, Napoli continua a essere lo spauracchio di ogni catastrofe legata alla spazzatura. Nel 2013 sul China Daily veniva espressa la preoccupazione che il ritardo di Hong Kong nel convertirsi agli inceneritori potesse portare la regione a trasformarsi nella “Napoli dell’Asia[7]”. Allo stesso tempo, giornalisti di diversi angoli del mondo potevano rassicurare i lettori che la situazione critica manifestatasi a Napoli non era ripetibile, dal momento che lì c’è la camorra… Dal compiacimento unanime per una crisi incommensurabile è facile giungere alla conclusione che Napoli non abbia insegnamenti da offrire.

Certo, questioni fondamentali legate alla gestione dei rifiuti sono state spesso oscurate anche nei resoconti giornalistici nazionali; nondimeno, in Italia un coro di altre voci ha sfidato la verità costituita. Così non è stato all’estero. Tuttavia, ridurre la questione a corollario dell’agenda liberale-capitalistica dei media mondiali non porta da nessuna parte (tanto più che anche giornali più piccoli, e sensibili ai temi ecologici, come Libération e Die Tageszeitung, hanno utilizzato nei loro resoconti la vulgata dominante sul rapporto tra crimine organizzato e crisi dell’immondizia). Piuttosto, è bene tenere a mente che, a eccezione di una manciata di attivisti e qualche lettore di articoli accademici internazionali, la comprensione della crisi dei rifiuti è stata per lo più veicolata dal ritratto di Napoli offerto ai lettori dai principali media internazionali.

[1] I link per le sezioni sopracitate sono i seguenti: www.theguardian.com/cities/series/extreme-cities; www.theguardian.com/cities/ng-interactive/2015/jun/05/history-cities-50-buildings-interactive; www.theguardian.com/cities.

[2] Benjamin W. e Lacis A., “Napoli”, in Benjamin W., Opere complete: II 1923-1927, Einaudi, Torino, 2001 [1924], p. 44.

[3] Si veda Calaresu M., “Looking for Virgil’s Tomb: The End of the Grand Tour and the Cosmopolitan Ideal in Europe”, in Elsner J. e Rubies J. (a cura di), Voyages and Visions: Towards a Cultural History of Travel, Reaktion, Londra, 1999, pp. 138-161.

[4] Dines N., “Writing rubbish about Naples: The global media, post-politics, and the garbage crisis of an (extra)ordinary city”, in Lindner C. e Meissner M. (a cura di), Global Garbage: Urban Imaginaries of Excess, Waste and Abandonment, Routledge, London, 2016, pp. 117-131.

[5] Popham P., “The rotten heart of Italy: See Naples and die (of the stench)”, The Independent, 11 gennaio 2008. www.independent.co.uk/news/world/europe/the-rotten-heart-of-italy-see-naples-and-die-of-the-stench-769448.html#.

[6] Si veda Swyngedouw E., “Apocalypse forever? Post-political populism and the spectre of climate change”, in Theory, Culture & Society, 27 (2–3), 2010, pp. 213–32.

[7] Chiping H., “Is HK to become ‘Asia’s Naples’?”, China Daily, 11 luglio 2013. www.chinadailyasia.com/opinion/2013-07/11/content_15077577.html.