L’ecosistema metropolitano

di Antonio Di Gennaro

La riforma dell’ordinamento delle province, con la nascita nel 2015 della città metropolitana di Napoli, la terza del paese, la più importante del Mezzogiorno, coglie l’area partenopea in uno dei momenti più difficili della sua storia[1]. Una crisi, quella della cosiddetta Terra dei fuochi, che si manifesta, come già accaduto in passato, nella forma di un’emergenza ambientale e sanitaria, che il discorso pubblico dominante mette in relazione diretta con il ciclo illegale dei rifiuti. Risulta evidente come tale situazione sia da considerare, in una prospettiva più ampia, e al di là degli aspetti particolari di criticità, come manifestazione di uno stato patologico complessivo dell’ecosistema metropolitano di Napoli, nella sua complessità e nelle sue radici strutturali, ecologiche e sociali. Se si prescinde da tale visione, le politiche pubbliche emergenziali si riducono a interventi episodici e transitori di mitigazione dei sintomi, quando non orientate, più o meno consapevolmente, a un effetto placebo di raffreddamento delle tensioni, e all’attivazione comunque di nuovi rivoli di spesa pubblica.

Resta dunque da capire in quale modo la costituzione della città metropolitana, per effetto della legge 56/2014, si presti a creare nuove condizioni e contesti istituzionali più favorevoli a un approccio sistemico, di tipo strutturale ai problemi dell’area napoletana. La precondizione ineludibile, è la comprensione corretta dell’ecosistema metropolitano, nei suoi aspetti strutturali, funzionali, dinamici, nella lunga come nella breve durata. Per far questo, può risultare anche utile disinnescare, tenere a bada, la nutrita famiglia di metafore, dalla classica Campania felix alla contemporanea Terra dei fuochi, passando per la “corona di spine” descritta da Francesco Saverio Nitti agli inizi del Novecento: immagini di grande efficacia rappresentativa, ancora utilizzate nel dibattito pubblico come figure sintetiche riassuntive, lì dove ci sarebbe invece bisogno, vista la complessità dei problemi, di rilevazioni sistematiche, interpretazioni e inferenze circostanziate e specifiche.

La prima metà del Novecento

Per comprendere l’evoluzione della struttura ecologica dell’area metropolitana di Napoli è opportuno partire dai primi anni del Novecento. A quel tempo il grado di urbanizzazione del territorio provinciale è del 3% circa (per intenderci, oggi siamo intorno al 40%), contro un valore medio regionale dello 0,8%. Lo schema urbano provinciale comprende, oltre al capoluogo con i suoi 480 mila abitanti, 13 centri di rango superiore (10-25 mila abitanti), dei quali 7 lungo il corridoio costiero da Pozzuoli a Vico Equense. I restanti 6 centri corrispondono alle principali città di pianura, lungo l’arco interno del territorio provinciale, al di là della dorsale flegrea e del Vesuvio. Procedendo da ovest verso est si tratta di Giugliano in Campania, Afragola, Frattamaggiore, Caivano, Acerra, Nola[2].

Nel complesso, la distribuzione degli abitanti tra il capoluogo e il resto della provincia agli inizi dello scorso secolo, vede prevalere Napoli che ospita il 52% della popolazione pur rappresentando il suo territorio appena il 10% di quello provinciale. Una polarizzazione che si ripete simmetricamente alla scala territoriale superiore, con la provincia di Napoli che ospita il 40% circa della popolazione della Campania, su un territorio che vale l’8% appena di quello regionale.

In ogni modo, lo schema ecologico della provincia di Napoli è ancora fondamentalmente quello settecentesco, con un articolato sistema policentrico di città e casali intorno al capoluogo, disperso in uno spazio rurale profondamente integro, che costituisce il 97% del territorio complessivo. La forma urbis del grande centro come del piccolo, è quella compatta: per andare da una città all’altra, ma anche da un quartiere all’altro della stessa città di Napoli, è necessario uscire dalla città e percorrere cospicue fasce di un territorio rurale che mantiene perfettamente integre l’organizzazione produttiva e l’assetto paesaggistico descritti da Galanti e Goethe alla fine del Settecento. Questa struttura del mosaico ecologico provinciale resiste lungo tutta la prima metà del Novecento, essendo ancora perfettamente leggibile nelle cartografie dei primi anni Sessanta, nonostante l’incremento demografico rispetto ai primi anni del secolo di 1,4 milioni di nuovi abitanti, metà dei quali residenti a Napoli, l’altra metà nei restanti comuni della provincia. Il rapporto demografico tra il capoluogo e l’insieme degli altri comuni della provincia resta paritario, ma ora l’hinterland prevale d’un soffio (51 a 49).

Nel 1960 anche la superficie urbanizzata provinciale è raddoppiata rispetto a inizio secolo, seguendo grosso modo l’incremento della popolazione, e ora ricopre il 6% circa della superficie territoriale, con il restante 94% del territorio che è ancora spazio rurale aperto. L’incremento demografico si è ulteriormente polarizzato. La popolazione del capoluogo è ora di 1,16 milioni di abitanti, e anche il corridoio costiero si rafforza notevolmente, comprendendo ora le 5 città della provincia con 50-100 mila abitanti (Pozzuoli, Portici, Torre del Greco, Torre Annunziata, Castellammare di Stabia). Rispetto alla situazione di inizio secolo ci sono poi 6 centri con 25-50 mila abitanti: si tratta di Ercolano sulla costa, e delle città di pianura Giugliano, Afragola, Casoria, Frattamaggiore e Acerra.

La provincia di Napoli si presenta dunque ora come un poderoso sistema di città in espansione, ma ancora immerso in una matrice rurale assolutamente dominante sotto il profilo quantitativo (93% della superficie territoriale), e che conserva un’assoluta integrità degli assetti agronomici, aziendali, produttivi, paesaggistici. Il sistema policentrico, dunque, resiste. Le città costituiscono ancora macchie compatte di tessuto urbano all’interno di una matrice rurale a elevata integrità e continuità. Ancora nel 1960, come a inizio secolo, per spostarsi da un centro all’altro del territorio provinciale è necessario percorrere significativi percorsi extra-urbani. Ogni polis conserva la sua chora, il suo cospicuo spazio rurale di pertinenza A guardare bene, anche all’interno delle città della fascia costiera, da Pozzuoli a Torre del Greco, dove la crescita urbana e demografica più si condensa, lo spazio urbanizzato rimane nonostante tutto inferiore al 40% della superficie territoriale, cosicché aspetti importantissimi di ruralità si conservano nel comune di Napoli, sui rilievi collinari come al fondo delle conche della zona occidentale, e la cosa è tanto più vera per città importanti come Pozzuoli o Torre del Greco. Uno spazio rurale integro e vitale, presidiato da un mosaico di aziende agricole attive, prospera dunque nel cuore stesso delle città, separandone ancora quartieri, frazioni, località.

La grande trasformazione. 1960-2010

Il sistema policentrico che abbiamo descritto, che si era evoluto in duemila anni di storia, e che è ancora perfettamente leggibile al 1960, oggi non esiste più. Nell’ultimo cinquantennio le superfici urbanizzate si sono moltiplicate per cinque, decuplicando quindi rispetto ai primi anni del Novecento. Si tratta di un incremento quantitativo che ha mutato per sempre la natura intima e le qualità del sistema territoriale incentrato su Napoli, nella sua componente urbana come in quella rurale.

È importante innanzitutto osservare come la grande trasformazione dell’area napoletana, il processo evolutivo che ha condotto agli assetti attuali, si compia in due fasi, con due ondate successive, secondo una periodizzazione che deve necessariamente distinguere il ventennio 1960-1980 dal trentennio successivo.

Nel corso del ventennio 1960-80, la popolazione del capoluogo cresce meno del 3% rispetto al 1960, mentre raddoppia la popolazione dei comuni di prima fascia, direttamente confinanti (Quarto, Marano, Arzano, Casoria, Volla, San Giorgio a Cremano), e crescono rapidamente, con tassi di incremento dal 50 al 100%, gli altri casali di prima cinta di Villaricca, Qualiano, Mugnano, Melito, Casandrino, Grumo Nevano. La corona di spine che Nitti vedeva cingere il capoluogo lungo l’asse est-ovest, da Pozzuoli a Torre del Greco, completa il suo giro, coinvolgendo e gonfiando impetuosamente i grossi borghi rurali a nord di Napoli, rapidamente ridotti a congestionati dormitori.

La seconda fase della grande trasformazione, il trentennio 1980-2010, avviene invece secondo un copione completamente nuovo, con l’esplosione delle città della grande pianura, sino a quel momento apparentemente fuori dal gioco. Alle città tra 50 e 100 mila abitanti, oltre a quelle della Grande Napoli di Nitti, ora tutte più o meno in fase in declino demografico, capoluogo compreso, si aggiungono Marano, Afragola, Casoria, e soprattutto Giugliano, che aumenta di due volte e mezzo i suoi abitanti nel trentennio, e assurge al rango di terza città della Campania, entrando nella lista delle prime cinquanta città d’Italia. Ma è l’intera piana dietro le colline a entrare in fermento, dall’Agro giuglianese alla Valle del Sarno, perché ora è qui, in questi territori nuovi, non direttamente in rapporto con il corridoio costiero, che si localizzano 18 delle 20 città della provincia con 25-50 mila abitanti.

Le conseguenze di un simile stravolgimento sono notevoli, a partire dai rapporti demografici tra il capoluogo e il suo hinterland. Il peso del capoluogo rispetto al totale della provincia, che era del 52% nel 1901, ed è ancora paritario nel 1960 (49%), declina al 40% nel 1980, assumendo nel 2010 valori intorno al 33%. Se fino a una quarantina di anni fa Napoli valeva in popolazione metà della sua provincia, ora il capoluogo rappresenta un terzo della demografia provinciale, con evidenti ripercussioni sugli equilibri decisionali, di leadership e rappresentanza sulle quali sarà necessario ritornare.

Sotto il profilo ecologico strutturale, la conformazione del sistema ha mutato per sempre la sua natura. Se prima della grande trasformazione è la matrice rurale descritta da Sestini l’elemento strutturale a elevata integrità, la matrice continua nella quale sono immerse le macchie distinte di città, ora i rapporti sono invertiti. Unitamente all’impetuoso sviluppo della rete infrastrutturale, che diventa essa stessa elemento generatore di nuova urbanizzazione, la dispersione insediativa ha comportato la fusione, in un’unica conurbazione disordinata e indistinta, delle città che componevano l’originaria struttura policentrica perfettamente leggibile nel 1960.

L’effetto di tale modello espansivo sul territorio rurale è devastante, sotto un triplice punto di vista. Da un lato, vi è la distruzione irreversibile dei suoli della piana e della fascia costiera, i più fertili del pianeta. Oltre il consumo di suolo, vi è poi la frammentazione dello spazio rurale residuo, con la disgregazione dei caratteri fondamentali di openess, di continuità strutturale e funzionale, e la trasformazione del paesaggio agrario di respiro unitario in un arcipelago di povere isole, incastrate nella maglia disordinata delle infrastrutture e degli elementi urbani. L’interfaccia tra le componenti urbane e quelle rurali si moltiplica con andamento frattale, e con essa le pressioni e le esternalità ambientali di ogni tipo che un sistema urbano mal funzionante è pronto a riversare sul territorio agricolo, considerato alla stregua di un’area di risulta.

Si badi beni, questi effetti si manifestano al di là dei meri rapporti quantitativi: attualmente, dopo la grande trasformazione, la superficie urbanizzata si estende infatti su un terzo circa del territorio provinciale, e questo significa che più del 60% di quest’ultimo è ancora territorio rurale. Ciò nonostante, è la nuova conformazione del sistema, con la disordinata compenetrazione delle componenti urbane e rurali, a determinare le disfunzioni funzionali ed estetiche, la perdita complessiva di ruolo e valore dello spazio agricolo, trasformato ormai in anello debole, riserva edilizia, sfondo banale e provvisorio di una periferia ubiquitaria, a bassa densità.

C’è la poi questione del rischio, perché la conurbazione con i suoi tre milioni di abitanti si estende nelle aree rosse di ben tre vulcani attivi (Vesuvio, Flegrei, Epomeo), occupando anche le fasce pedemontane a elevato rischio di colate piroclastiche rapide, simili a quelle della catastrofe di Sarno. È evidente come alle esigenze di una problematica messa in sicurezza ex-post di una tale situazione, corrisponda un “debito pubblico territoriale” di proporzioni immani, ben al di là delle attuali disastrate possibilità finanziarie degli enti locali e dello stato centrale.

Gli effetti dello sviluppo squilibrato dell’area metropolitana di Napoli sono per certi versi paradossali. Nonostante l’immane spreco di suoli e paesaggi, si concentra nella conurbazione partenopea larga parte del disagio abitativo nazionale, con un fabbisogno stimato in più di 300 mila abitazioni, mentre mancano all’appello attrezzature collettive e aree verdi per un’estensione pari a 6 mila campi di calcio[3]. Un colossale deficit di cittadinanza, che si concreta nella drammatica carenza di tutti i servizi essenziali dai quali dipende la qualità del vivere quotidiano, dall’acqua ai rifiuti, all’istruzione, all’assistenza e alla cura della persona. Non stupisce a questo punto che la provincia di Napoli si collochi nel 2013 all’ultimo posto nella graduatoria della qualità della vita stilata annualmente dal Sole 24 Ore, né che gli indicatori economici e occupazionali releghino attualmente la Campania tra le ultime quindici posizioni rispetto all’elenco delle 272 regioni dell’Unione Europea[4].

Quello che è certo, in questa complicata situazione, è che nessuno si salva da solo. Se in altri contesti nazionali ed europei la costruzione di istituzioni metropolitane può rappresentare l’occasione per l’armonizzazione a una scala superiore di una dotazione comunque congrua di servizi e funzioni offerti a livello di municipalità, qui nell’area napoletana la cosa è diversa, e la città metropolitana rappresenta l’ultima occasione per restituire dignità ai contesti, per dotare finalmente un sistema territoriale congestionato e sofferente degli standard minimi di cittadinanza e civiltà che un cinquantennio di non-governo, centrale e locale, non è riuscito a garantire.

[1] Per il titolo dell’articolo mi sono ispirato a quello assai felice (“Napoli come ecosistema”) del ciclo di lezioni organizzate nell’anno scolastico 2013-14 dal Cnr e dal Fai, con il coordinamento di Gabriella Corona, per gli studenti dei licei pubblici di Napoli.

[2] I dati demografici citati nel capitolo sono ripresi da: Coppola P., “Popolazione e quadri sociali”, in Due secoli della Provincia, due secoli nella Provincia, Provincia di Napoli, Paparo, Napoli, pp. 25-26.

[3] Un dimensionamento convincente per l’area metropolitana Caserta-Napoli-Salerno è quello elaborato da De Lucia V. e Frisch G. nel Documento di indirizzi per il nuovo Ptc della Provincia di Caserta, MicroMedia, Caserta, 1997, pp. 45-52.

[4] Santonastaso N., “Sud, il lavoro perduto tre volte più del Nord”, Il Mattino, 16/04/2014; Il Sole 24 Ore, Qualità della vita 2013, 03/12/2013.